Quell’11 ottobre
Non è affatto un’esagerazione dire che il Concilio Vaticano II nella misura in cui chiude il regime di cristianità e apre a una nuova comprensione del Vangelo, chiude col Dio del contraccambio e apre al Dio del puro dono, chiude con l’ideologia del sacrificio e apre alla sovranità dell’amore, segna un passaggio d’epoca nella storia della Chiesa. Perciò è una grande responsabilità aver cercato di neutralizzarlo per cinquant’anni, finché è stato ripristinato nella sua forza dirompente da papa Francesco, perché questo ha voluto dire ritardare di mezzo secolo l’avvio del nuovo rapporto della Chiesa col mondo del nostro tempo; e nel mentre il mondo ha perso la strada, esponendosi al rischio della fine. Perciò sarebbe impossibile qui dare conto di ciò che il Concilio è veramente stato, e mi limiterò invece ad alcuni personali ricordi.
Il primo riguarda il giorno della sua inaugurazione, l’11 ottobre del 1962. Esso era atteso da tre anni, da quando, da poco eletto, Giovanni XXIII ne aveva dato l’annuncio, ma nessuno sapeva né che cos’era, né che cosa sarebbe stato. È vero che di Concili già ce n’erano stati venti, ma si pensava che, avendo l’ultimo, il Vaticano I, proclamato l’infallibilità pontificia che sarebbe bastata alla Chiesa, non ce ne sarebbe stato nessun altro. Quindi già il convocarlo significava che la Chiesa doveva cambiare, ed era proprio il Papa che glielo chiedeva. Ma noi non ce ne eravamo accorti, tanto che «l’Avvenire d’Italia», che io dirigevo ed era il maggiore quotidiano cattolico (allora ce n’erano una decina) si apprestò a dargli una copertura di routine, come si faceva allora sui giornali per tutti gli avvenimenti romani di carattere religioso, che di solito erano raccontati dai «vaticanisti», alcuni peraltro molto bravi e famosi (come Silvio Negro al «Corriere della Sera» o René Laurentin a «Le Figaro»).
Però alla televisione, che allora era nuova anche lei, si pensò giustamente di dare conto dei Concili precedenti e di spiegare che cosa fosse quel grande avvenimento. Ritenendomene esperto per ragioni d’ufficio, me ne diedero pertanto l’incarico. Sicché preparai un documentario che doveva andare in onda quella sera alle 9 in punto, nell’ora di maggiore ascolto, e a quell’ora io ero negli studi di via Teulada da cui il filmato doveva essere trasmesso. Già al mattino la tv italiana, che aveva allora l’esclusiva delle dirette dal Vaticano per tutto il mondo, aveva mostrato l’apertura del Concilio, compreso quel lungo fiume bianco di vescovi e di padri conciliari con piviale e mitria che dal Portone di Bronzo, attraverso la piazza, erano entrati in processione in San Pietro. Papa Giovanni vi aveva tenuto un discorso mirabile in cui aveva annunciato la «gioia della Chiesa», presentata come la «Chiesa di tutti e soprattutto Chiesa dei poveri», e pensava, per quel giorno, di aver detto abbastanza. Ma alla sera da tutte le parrocchie romane era stata organizzata una fiaccolata che aveva riempito piazza San Pietro, e che voleva ricordare la fiaccolata con cui si era concluso il Concilio di Efeso del 431 per festeggiare la definizione di Maria come Madre di Dio, la Theotokos. Non era previsto che il Papa si affacciasse alla finestra e che parlasse, né lui lo voleva. Perciò noi avevamo pensato di aprire il documentario con un siparietto di pochi minuti con la ripresa della piazza, che le fiaccole nel buio facevano sembrare la Via Lattea, e poi subito dare il via al filmato.
Se fosse andata così il mondo non avrebbe conosciuto il discorso che Giovanni XXIII improvvisò quella sera quando il suo segretario, don Loris Capovilla, insisté perché guardasse almeno dalle persiane quello straordinario spettacolo. Con Michele Di Schiena, che era il regista dislocato sulla piazza, decidemmo subito di mantenere il collegamento, al diavolo gli orari del palinsesto. E fu, in diretta, «il discorso della Luna». Sembrava un discorso d’occasione. Ma ricordarlo oggi vuol dire capire qualcosa che allora non avevamo capito. Non avevamo capito che quello era il vero inizio del Concilio, di un Concilio che si sarebbe giocato non dalla parte dei vescovi, ma dalla parte dei discepoli, di quelli che quella sera erano lì in quella piazza.
I segni del tempo
Intanto con la luna compare la categoria teologica dei segni del tempo, mutuata dai segni del tempo del Vangelo. Il segno della luna diceva, secondo papa Giovanni, che quella era stata «una grande giornata di pace»; ma c’erano altri segni da decifrare: quella giornata inaugurale preannunciava il fiume di grazia che – come quel fiume bianco che aveva attraversato la piazza – si sarebbe riversato sulla Chiesa. Nella Pacem in Terris i segni dei tempi diverranno ancora più impegnativi: i lavoratori, la donna, i popoli, e poi la pace, il diritto, l’ONU, le Costituzioni. «È un fratello che vi parla», dice Giovanni. Il Papa è rimesso dentro la Chiesa. Come nei tempi messianici non c’è più né uomo né donna, né libero né schiavo, né ebreo né gentile, così nei nuovi tempi annunciati non ci sono più paternità e fraternità ma «tutto, tutto è grazia e amore di Dio». Poi c’è il Concilio da portare a casa: «Date una carezza ai bambini». Il Papa non dice di stare solo ad ascoltare, di fare gli spettatori. Dice di fare qualcosa, di andare a casa e dare una carezza, evangelizzare, dire: «Questa è la carezza del Papa».
Senza questa missio, non sarebbe apparso fin dalla prima sera il vero senso del Concilio. Il Concilio non era fatto per gli esperti, non era fatto per la Chiesa dei maestri, dei dottori e dei vescovi, era fatto per i discepoli, era fatto per la Chiesa dei fedeli, per la Chiesa degli uomini e delle donne del nostro tempo, l’umanità intera. Nessuno, per entrare nella piazza, era stato richiesto del certificato di battesimo, della legittima appartenenza a quella Chiesa di cui colui che parlava alla finestra era il capo. Tutti erano venuti liberamente, e tutti erano liberamente accolti e inclusi. Il Concilio era fatto per loro.
Il ruolo della stampa
Quella sera di ottobre, nel simbolo delle fiaccole che lo riconduceva al concilio di Efeso, si stabiliva anche un’altra caratteristica del Vaticano II. Esso non si distaccava dagli altri Concili, ma li ricapitolava e riassumeva discernendone la memoria e facendone la vera esegesi, ponendosi come ermeneutica di tutti i precedenti Concili. Ne riassumeva tutta la tradizione, la ripensava e la portava avanti. Nel passato non c’era solo la controriforma del Concilio di Trento, né l’infallibilità del Vaticano I. Lo ha detto di recente papa Francesco parlando ai direttori delle riviste europee dei gesuiti: «È molto difficile vedere un rinnovamento spirituale usando schemi molto antiquati… Perché il Concilio che alcuni pastori ricordano meglio è quello di Trento». E questo succedeva già allora.
C’era una barzelletta che circolava tra i Padri, che prendeva a partito il cardinale Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio, che era un rigido conservatore dell’ortodossia, il che tuttavia non gli aveva impedito di scrivere nelle sue Istitutiones Juris Publici Ecclesiatici la novità che la guerra era del tutto da interdire (bellum omnino interdicendum). Una mattina lui fa tardi, salta in tassì e si precipita al Concilio. Ma si addormenta e quando si sveglia trova che sta viaggiando in aperta campagna, e dice all’autista: «Ma dove mi sta portando?». E quello risponde: «A Trento, non mi aveva detto di portarla al Concilio?». Ma fu già a poche settimane dall’inizio, che si capì di che pasta fosse fatto quel Concilio, quando papa Giovanni fece buttare all’aria tutti i testi preconciliari che erano stati preparati nella cucina della Curia, e lasciò il Concilio libero di impostare tutto di nuovo. Così anche noi capimmo, e alla seconda sessione ottenemmo che fosse tolto il segreto, e investimmo tutte le risorse del giornale per le cronache del Vaticano II. E siccome lì si parlava in latino, e non tutti i vescovi lo capivano, era sul giornale che leggevano il giorno dopo com’era andata e che cosa vi era stato detto.
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