Riprendiamoci l'ironia!
Premessa: quanto segue non ha nulla a che fare con la blasfemia. È il 1966: intervistato a proposito della popolarità raggiunta dalla sua band, John Lennon risponde: «The Beatles are more popular than Jesus now» («I Beatles sono più popolari di Gesù ora»). La frase fa il giro del mondo e, se in America genera indignazione, in Gran Bretagna – complice il rinomato humour inglese – non sembra scandalizzare proprio nessuno. Come mai? Al di là del significato letterale, la rockstar intende scherzare su un successo planetario e, forse, a suo avviso eccessivo. Lo fa con l’aiuto dell’ironia, strumento naturalmente fluido e soggettivo, colto da pochi ieri, figuriamoci oggi. Che cosa sarebbe accaduto se un cantante del festival di Sanremo, lo scorso febbraio, se ne fosse uscito con una frase simile? Certo, le stranezze non sono mancate durante la kermesse musicale. Ma di vera ironia, beh, se ne è vista davvero poca. «Negli ultimi anni ho notato un utilizzo via via sempre minore dell’ironia – conferma Caterina Scianna, autrice di Ironia. Indagine su un fenomeno linguistico, cognitivo e sociale (Carocci) e assegnista di ricerca nel Dipartimento di Scienze cognitive, psicologiche, pedagogiche e degli studi culturali dell’Università degli Studi di Messina –. Nei contesti pubblici, in particolare, dove è possibile che la battuta non venga compresa da tutti, fare ironia è diventato rischioso. Mi è capitato di vedere tanti personaggi – in primis comici – che si sono dovuti scusare per le loro battute». E questa tendenza, veicolata dall’espansione del politically correct, è destinata, secondo la studiosa, a intensificarsi.
Qualcuno potrebbe obiettare che non c’è poi tanto da ridere di questi tempi, tra guerra, crisi economica e una pandemia (si spera) alle spalle. Ma «un po’ di ironia fa bene a tutti i livelli, dalla conversazione informale al discorso istituzionale – continua la ricercatrice –, perché alleggerisce le critiche, spinge a essere più flessibili e porta le controversie a un livello più fine». Parafrasando Victor Hugo, «La libertà comincia dall’ironia». Per non dire la verità, chioserebbe Socrate: il filosofo greco, forse il primo ironista per eccellenza della storia, giocava infatti con le parole per condurre l’interlocutore a scovare da solo la retta via. Dei suoi insegnamenti devono aver fatto tesoro anche i nostri politici degli anni ’60 e ’70: «Pensiamo ai discorsi di Aldo Moro e Alcide De Gasperi: non hanno nulla a che fare con quelli attuali» precisa ancora Caterina Scianna. «Quanto alla letteratura, sfido chiunque a trovare persone capaci di giocare con le parole restando su più livelli, come Umberto Eco. Oggi la sottigliezza linguistica non è più apprezzata da gran parte del pubblico».
Ciononostante, non tutto è perduto per la studiosa di linguaggio e cognizione umana: «Dobbiamo imparare a prendere le cose più alla leggera», a prescindere dalle difficoltà che ci si parano davanti. «Penso al periodo del lockdown, quando questa mancanza di leggerezza si è sentita ancora di più: nessuno osava fare battute su quanto stava accadendo». Ogni cosa era avvolta da una sorta di timore reverenziale controproducente. Con tutto il rispetto per le vittime del covid, la pesantezza genera altra pesantezza. Lo sapeva bene anche Søren Kierkegaard che, nel 1841, individuava nell’ironia una sorta di panacea. «Ci fu un periodo, e neanche troppo lontano, in cui anche da noi per avere successo bastava un pizzico di ironia – scriveva il filosofo –; colmava tutte le lacune in altri rami, aiutava uno a farsi onore al mondo, gli dava fama di uno colto, uno con occhio per la vita, uno con senso del mondo».
La Bibbia insegna
Sacrosanta ironia, dunque. È proprio il caso di dirlo, considerate le parole che anche papa Francesco ha speso di recente a suo favore (6 ottobre 2022, Discorso al convegno promosso dal Dicastero delle cause dei santi): «Qualcuno diceva: “Un santo triste è un triste santo”. Saper godere della vita con senso dell’umorismo, prendere la parte della vita che fa ridere, questo alleggerisce l’anima». Sebbene l’umorismo sia, per dirla con le parole di Caterina Scianna, «un fenomeno più ampio, che si estende oltre l’ironia e tocca la sfera del comico e del riso», resta il fatto che molto spesso le espressioni ironiche sono anche umoristiche e che moltissime volte, nel corso dei secoli, la Chiesa ne ha fatto uso. A partire dai testi sacri… «Nella Bibbia si trovano sarcasmo, ironia, giochi di parole, nomi umoristici, immagini divertenti, esagerazioni e situazioni comiche – conferma Sergio Gaburro, docente di Teologia fondamentale, ecumenica e cristiana delle religioni presso la Facoltà Teologica del Triveneto, nonché autore di L’ironia, «voce di sottile silenzio» (San Paolo) –. La Bibbia utilizza molti tipi di umorismo, tuttavia il suo scopo non è ovviamente quello di intrattenere o di divertire, bensì di dimostrare che il male è male ed è anche, in fondo, ridicolo».
Tutto il Pentateuco è intriso di ironia. Pensiamo alla nascita di Mosè, figlio di una relazione contraria alla Legge (il padre Amram aveva preso in moglie sua zia Iochebed). O alla risposta dei due angeli che, invitati da Lot a passare la notte in casa sua, dichiarano di voler rimanere sulla piazza (il contrario della loro vera intenzione). Per non parlare del libro di Giobbe, in cui l’espediente ironico accompagna la narrazione. Attraverso l'esperienza e le molte sventure del protagonista – parola di Gaburro – «Dio vuole demolire la ridicola pretesa della creatura di prendere il posto del Creatore, perché torni alla misura dell’uomo». Nell’Antico Testamento l’ironia diventa anche un’arma che permette ai deboli di deridere i potenti, trasformando la loro debolezza in forza. È il caso delle due levatrici Sifra e Pua che, nel libro dell’Esodo, nascondendosi dietro una finta ingenuità, disobbediscono agli ordini del Faraone (uccidere tutti i figli maschi ebrei alla nascita): «Le donne ebree non sono come le egiziane – si giustificheranno successivamente con il loro sovrano –: sono piene di vita, prima che arrivino da loro le levatrici, hanno già partorito» (Es 1,22).
«In quanto “docta ignorantia” l’ironia è sapere e insieme non sapere – spiega ancora il teologo –, perché è sapere che nasce dalla consapevolezza e dalla finzione. È segno di libertà, intelligenza, creatività. E, quando è vera, sdrammatizza, accorcia le distanze, distende, dà letizia, aiuta nel momento del dramma». Un esempio evidente è quello dei discepoli sulla strada verso Emmaus, quando chiedono allo sconosciuto: «Non sai ciò che è accaduto a Gerusalemme in questi giorni?». Il Risorto risponde: «Che cosa?». «La sua – commenta Gaburro – non è un’ironia mordace, né tantomeno un sarcasmo, ma una certa affettuosa presa in giro, che aiuta a ridimensionare i problemi senza negarli. L’ironia, dunque, ha il potere di demolire ogni idea fissa e definitiva che ci siamo costruiti di Dio. Egli è sempre l’Altro, l’impalpabile, l’indicibile. Se pensi di possederlo, l’ironia ti dice che lo trovi solo camminando. In questo senso, essa rappresenta un grande supporto anti-idolatrico, che impedisce di abitare ciò che è ovvio. Qualora il credente, lo scrittore, il teologo abbia la pretesa di far entrare Dio nel suo pensiero, nella grammatica della sua lingua, non è che un illuso». Come afferma lo scrittore ceco Milan Kundera, riprendendo un proverbio ebraico: «L’uomo pensa, Dio ride».
Colpire col sorriso
Baffetti alla Hitler, divisa e stivali in stile SS, il capo supremo tedesco Adenoid Hynkel gioca con un mappamondo gonfiabile nel suo ufficio. Lo prende, lo lascia, lo calcia, lo abbraccia, finché non gli scoppia in mano. È il 1940 quando Charlie Chaplin interpreta Il grande dittatore, dando vita a un capolavoro di ironia tutt’oggi insuperato. Suo intento è prendere in giro i regimi nazisti e fascisti. Colpirli con «un’arma di costruzione di massa (…), critica dell’ambiente con cui è a contatto» per dirla con le parole di Giulio Giorello. «L’ironia – scrive il filosofo in La danza della parola. L’ironia come arma civile per combattere schemi e dogmatismi (Mondadori) – può non solo far sorridere, può fare anche ridere a crepapelle, ma vuole soprattutto colpire. Non c’è fortezza che essa non possa pretendere di espugnare».
Poco importa, allora, se a essere colpiti sono l’opinione pubblica, i politici, gli scienziati, una famiglia davanti alla tv o una classe in ascolto dell’insegnante… «Guai a quel maestro che non sa ridere di se stesso» diceva Friedrich Nietzsche. Gran cosa l’autoironia… Perché «permette di dichiarare i propri limiti prima che questi siano riconosciuti e sottolineati dagli altri – scrivono Antonella Marchetti, Davide Massaro e Annalisa Valle in L’ironia in psicologia: confini, modalità, scopi (Franco Angeli) –: in questo modo gli individui ammettono la propria fattibilità e si mettono al riparo da eventuali critiche sul modo di operare utilizzato e sulle poche capacità dimostrate. Inoltre, riflettendo sulla natura aggressiva dell’ironia, che può essere utilizzata come attacco, pur se indiretto e non eccessivo, è possibile supporre che anche l’autoironia sia una forma di aggregazione, in questo caso diretta dall’individuo a se stesso. Così facendo, colui che pronuncia una frase autoironica mostra a chi lo circonda che non c’è la necessità di aggredirlo a causa delle sue debolezze, in quanto lui stesso è il primo a riconoscere e a rimproverarsi tali mancanze: chi parla manifesta così la propria vulnerabilità, vanificando in anticipo l’effetto di eventuali attacchi dall’esterno».
Ne abbiamo fatta di strada dalla eironeia greca di Socrate, eppure siamo ancora qui a parlarne e a cercare risposte. Gli anni passano, ma la voglia di sorridere, con alti e bassi, non ci abbandona mai del tutto. Forse perché, in fondo, fa parte della nostra natura. «E se si ride, si sorride, si scherza, si architettano sublimi strategie del risibile – siamo l’unica specie a farlo, poiché sono esclusi da questa sorte gli animali e gli angeli – è perché siamo l’unica specie che, non essendo immortale, sa di non esserlo. Il cane vede altri cani morire, ma non sa – almeno non per forza di sillogismo – che anche lui è mortale. Socrate lo sa. Ed è perché lo sa che è capace di ironia». Parola di Umberto Eco (Tra menzogna e ironia, Bompiani).
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