San Giuseppe, ovvero essere diversamente padri
Ho la grazia di conoscere personalmente alcune famiglie adottive o affidatarie: famiglie, cioè, dove sono stati accolti figli e figlie non propri, per qualche tempo o per sempre. La testimonianza di accoglienza che queste famiglie, queste mamme e papà, lì dove ci sono anche questi fratelli e sorelle o nonni, mi hanno dato mi ha sempre commosso e persino provocato. Niente di idilliaco o troppo facile, ma sicuramente tanta dedizione gratuita e tanta passione, anche tanta accettazione di limiti, fragilità e persino insuccessi.
A san Giuseppe, ma lo dico sottovoce e con tutte le parentesi del caso, nella crescita e nell’educazione di quel figlio neanche suo, è toccata per certi versi la parte più difficile, e allo stesso tempo, proprio per questo, più disinteressata. Appunto perché ha accettato di fare da padre putativo a Gesù. Di entrare in questa storia in silenzio, disobbedendo alla legge pur di non infierire sulla sua promessa sposa, perché quasi costretto a suon di sogni, genealogie davidiche e indicazioni divine, e a uscirne in altrettanto silenzio. Scomparendo all’improvviso. Senza reclamare su di sé nemmeno le attenzioni evangeliche del caso.
Di lui, di cui non abbiamo neanche una parola, ci rimangono i dubbi, l’ascolto, la ricerca di soluzioni non scontate né facili ma coraggiose, le attenzioni nei confronti degli altri, la presa in carico responsabile e senza tentennamenti della sua famiglia, la protezione, l’attivarsi prontamente di fronte alle varie necessità, il lavoro. Un silenzio operoso, che distingue abbracciare da possedere. Di cui, probabilmente, abbiamo bisogno noi tutti, diversamente padri.
Ecco, eredità del Signore sono i figli,
è sua ricompensa il frutto del grembo.
Come frecce in mano a un guerriero
sono i figli avuti in giovinezza (Sal 127).