Sant’Antonio dei rifugiati

Nel Myanmar, isolato dal mondo e sconvolto dalle atrocità dei militari dopo il colpo di Stato di un anno fa, stiamo aiutando centinaia di profughi. Grazie al vostro aiuto, a sei suore birmane e ai «ragazzi di sant’Antonio».
04 Marzo 2022 | di

Il furgone si aggrappa alle stradine di montagna. Intorno la foresta è fitta. L’esercito del Fronte di protezione popolare (People Defence Force, Pdf) spiana la strada verso i campi profughi più impervi, dove la gente si è rifugiata per scampare alle atroci violenze dei militari. Hanno perso tutto: casa, lavoro, il contatto con gli altri membri della famiglia. All’interno del furgone, sacchi di riso, coperte, teloni e medicine ballano al ritmo delle buche. Sopra a tutto campeggia un cartello scritto a mano: «Sant’Antonio».

Siamo in Myanmar, Paese del Sud-Est asiatico, a un anno dall’inizio dell’incubo, quando, all’indomani della vittoria schiacciante della Lega nazionale della democrazia di Aung San Suu Kyi, i militari hanno contestato le elezioni e preso il potere, sotto il comando del generale Min Aung Hlaing. La gente del campo profughi non conosce sant’Antonio, è sconvolta dal dolore e dalle privazioni, ma all’apparire del furgone grida: «Sant’Antonio! Sant’Antonio!». I giovani all’interno del furgone invece lo conoscono, eccome. C’è la sua statua nella casa di accoglienza delle ancelle missionarie del Santissimo Sacramento destinata alle ragazze abbandonate o orfane a Loikaw, costruita nel 2013 con il contributo di Caritas sant’Antonio e grazie all’Associazione Via Pacis di Trento. Anche i ragazzi del furgone andavano nella casa per frequentare il doposcuola delle suore. Per questo sant’Antonio è un pezzo della loro vita.

Discesa nella notte

Loikaw è la capitale del Kayah, il territorio più caldo della guerra in corso: poiché in questo luogo vivono molte etnie represse dai militari, qui si è costruita una resistenza armata che oggi ha coagulato gran parte dell’opposizione, tra cui vi sono molti medici e infermieri, tra i primi a protestare contro il colpo di Stato. Ma Kayah è anche lo Stato in cui più consistente è la presenza della minoranza cattolica, oggi più che mai perseguitata. «Le nostre suore, tutte birmane, perché in Myanmar gli stranieri non possono trasferirsi, hanno resistito a Loikaw finché hanno potuto. Hanno protetto le bambine, hanno mandato aiuti sulle montagne, hanno accolto profughi. Quante preghiere ha ricevuto la nostra statua di sant’Antonio!».

A parlare è suor Rosanna Favero, veneta di Caonada di Montebelluna (TV), nelle Filippine da trent’anni, referente per la presenza della sua congregazione in Myanmar; il suo sorriso nello schermo sfarfallante di Whatsapp tradisce la pesantezza del momento. «Le sedici parrocchie della diocesi di Loikaw sono tutte vuote. Anche le nostre sei suore sono partite due settimane fa; si sono divise in tre gruppi, per minimizzare i rischi, affrontando un viaggio pericolosissimo verso i campi profughi degli Stati vicini. Uno di questi piccoli gruppi è stato accolto in un campo di un monastero buddista. Il monaco a capo ha cercato le suore per dire loro che sono disposti ad assistere anche tutti i cattolici presenti sul loro territorio e ha chiesto di aiutarsi reciprocamente. Grazie a Dio».

Caritas sant’Antonio, forte del sostegno degli amici del Santo, sta finanziando l’aiuto ai profughi tramite le suore nei campi. «Un miracolo nel miracolo – testimonia suor Rosanna –. Di recente ci sono arrivati da Caritas sant’Antonio 20 mila euro per l’emergenza alimentare e noi da qui, pezzetto dopo pezzetto, li facciamo arrivare alle suore nei campi, che oltre alle bambine aiutano chi si trova in estrema difficoltà. Grazie a quel denaro siamo anche riuscite a recuperare un pozzo, che oggi dà acqua a 200 famiglie».Fuori dai campi regna il caos e la situazione è drammatica.

«I primi tre mesi dopo il colpo di Stato non si vedevano grandi cambiamenti – racconta suor Rosanna –. Tutto è iniziato con le misure anti-covid: non si poteva uscire di casa se non per un’ora e mezzo al mattino per andare al mercato. Il controllo si è fatto più serrato. A maggio a Kayah è iniziato l’inferno. I militari entravano nelle case e le passavano al setaccio per trovare segni di appartenenza delle persone al Pdf. In caso di sospetto seguivano arresti sommari, pestaggi, e la famiglia intera finiva sotto tiro. I militari bruciavano beni, riso, a volte interi villaggi».

Finché una cieca crudeltà ha preso il sopravvento: «Qualche giorno fa hanno torturato e ucciso sei adolescenti, tra i 15 e i 17 anni. In segno di spregio li hanno buttati nelle fogne a cielo aperto dei villaggi. Prima la gente si rifugiava nelle chiese, che all’inizio venivano risparmiate, poi hanno preso a bombardare indiscriminatamente, a distruggere le case, i mercati e ogni tipo di attività, finché restare nei villaggi è divenuto impossibile. La povertà e l’abbruttimento hanno reso alcune persone spie del governo: si spacciano per rifugiati, ma poi, in cambio di pochi spiccioli, denunciano chiunque dimostri di avere qualche bene o qualche contatto con i ribelli».

Anche noi a Loikaw

Il 24 dicembre, per quella che sta passando alla storia come la strage di Natale, i militari hanno ucciso, bruciandole vive, trentacinque persone, tra cui quattro bambini. La notizia è filtrata nell’Occidente annebbiato dal covid solo perché tra i morti c’erano due cooperanti di Save the Children, due giovani neopapà birmani. «Il 23 c’era anche un furgoncino di sant’Antonio nelle montagne intorno a Loikaw – ricorda suor Rosanna –. L’umore era alle stelle perché gli aiuti erano fortunosamente arrivati. Le consorelle ancora resistevano nella nostra casa di Loikaw, proteggendo le bambine e le famiglie rifugiate. Dissi a suor Giusy, la superiora: “Di’ ai ragazzi degli aiuti di sant’Antonio di non proseguire il giro domani, è troppo pericoloso”. Il giorno dopo la notizia dei trentacinque morti ci ha raggelato: la strage era avvenuta sulla strada che avrebbero fatto i nostri ragazzi».

Oggi le uccisioni sommarie sono all’ordine del giorno; 400 mila persone hanno abbandonato le proprie abitazioni, 30 mila hanno chiesto asilo ai Paesi confinanti. Il Myanmar è precipitato nella miseria: la valuta è crollata, l’inflazione è alle stelle, una persona su due vive sotto la soglia di povertà. Un’immane tragedia che il mondo continua a ignorare e che papa Francesco si ostina a denunciare, come nell’udienza generale di inizio febbraio, quando ha sottolineato che non si può restare indifferenti alle «violenze che insanguinano il Myanmar», rilanciando poi l’appello dei vescovi birmani «affinché la comunità internazionale si adoperi per la conciliazione delle parti».

E mentre i grandi della Terra decidono il da farsi, emoziona pensare che noi tutti, nella notte più buia del Myanmar, insieme ai «ragazzi di sant’Antonio» e alle suore di Loikaw siamo nei campi profughi, accanto ai più poveri dei poveri: «È un miracolo – ripete suor Rosanna, tradendo l’emozione –. Riusciamo a far arrivare alimenti, medicine, schede telefoniche e conforto tramite le suore. A volte mi abbatto, poi penso al coraggio delle mie consorelle e della gente, all’amore che hanno per il loro popolo e ritorno a sperare che finirà la notte. Grazie per l’aiuto, preziosissimo. Non ci abbandonate. Pregate, pregate, pregate». 

 

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Data di aggiornamento: 04 Marzo 2022

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