A scuola… di relazione
«Voglio avere un compagno di banco! Voglio tornare a studiare e trovarmi con i compagni…Voglio fare a gara per prendere il posto all’ultimo banco, voglio avere freddo in classe, voglio elemosinare la merenda perché l’ho dimenticata come sempre. Voglio sentire il professore che mi guarda in faccia e mi spiega e mi rispiega la lezione. Voglio avere l’ansia della verifica, perché so che non riuscirò a copiare e si baserà tutto sulle mie capacità!». Questi stralci della lettera di una studentessa, pubblicata su «MonzaToday», esprimono con chiarezza ciò che più manca ai ragazzi, ostaggio della didattica a distanza da quasi due anni scolastici. In molti sono ritornati in classe al 50 per cento dalla fine di gennaio, sapendo che da un momento all’altro il coronavirus potrebbe ricacciarli nella clausura domestica, felpa, pigiama dalla vita in giù, la tazza del caffèlatte dietro lo schermo del computer.
Ma la vera novità è quel desiderio di scuola mai così dirompente, nonostante le levatacce, il freddo, il traffico, l’incalzare delle spiegazioni e delle verifiche, l’ansia da interrogazione. La scuola, quella in carne e ossa, non è più scontata; a tratti sembra quasi un privilegio.
Già a settembre, prima dell’ultima fatale ondata di contagi, l’orientamento era chiaro: secondo un’indagine di Studenti.it, il 57 per cento dei ragazzi preferiva le lezioni in presenza alla didattica a distanza. Il 66 per cento riteneva che la didattica online avesse reso più faticose le lezioni e anche l’interazione tra studenti e professori. Tra i motivi del disagio, i mezzi poco adeguati e le connessioni scadenti.
Per la prima volta nella storia degli ultimi cinquant’anni la scuola non è più la scuola, gli insegnanti ci sono ma non sono presenti, i compagni allineati in finestrelle negli schermi rimangono comunque troppo virtuali per essere veri. La classe, diventata classroom, non è più la stessa. Commenta Marta, 18 anni, liceo scientifico a Treviso: «La Dad per chi poteva accedervi è stata una grande risorsa all’inizio della pandemia, ma doveva essere solo un ponte per pensare ad altre soluzioni. Neppure il computer più performante può colmare la mancanza di relazioni vere. Invece “la nuvola” è diventata la dimensione in cui parcheggiarci, aspettando che tutto passi. Ciò che più mi fa arrabbiare è che ci chiedono sacrifici, ma ci lasciano per ultimi nell’elenco delle priorità. Al massimo tengono aperte le scuole dei più piccoli, ma solo per dar modo ai genitori di andare a lavorare».
L’impressione dei ragazzi, insomma, non è solo quella di aver perduto la scuola come la conoscevano, ma anche quella di essere socialmente sempre più irrilevanti, sacrificabili. Un dato di fatto che ha portato a due esiti opposti: da un lato, i ragazzi in protesta davanti alle scuole che battevano i pugni per tornare in classe e, dall’altro, quelli che diventavano sempre più «sdraiati», quasi amorfi, con il pericolo reale di finire fagocitati dal proprio divano, lontani e indifferenti, a rischio dropout. Per la prima volta nella storia contemporanea è successo anche nella scuola un evento nuovo: il virus pandemico ha avvicinato in modo sorprendente due mondi scolastici lontanissimi, quello dei Paesi ricchi e quello dei Paesi poveri, uniti, da un lato, dalla voglia di andare a scuola per costruire relazioni e futuro e, dall’altro, dal rischio di disperdersi e condannarsi all’irrilevanza. In Italia la scuola, data per scontata per decenni, mal-riformata, tagliata, abbandonata a se stessa, è diventata d’improvviso il paradigma del Paese. Davanti, un bivio: avanzare o tornare indietro. Non c’è più una via di mezzo. E questo i ragazzi ormai lo sentono, e reagiscono come possono, con rabbia o rassegnazione.
Tuttavia, questo stato di cose è un banco di prova, una grande sfida anche per loro, che devono assumersi nuove responsabilità e non cedere alla lamentela. Almeno, così la pensa Massimo Recalcati, che dalle pagine de «la Repubblica» esorta a non drammatizzare: «Ogni formazione è fatta di buoni e cattivi incontri, di buona e di cattiva sorte. I genitori contemporanei vorrebbero invece escludere per i loro figli l’esperienza dell’ostacolo e dell’impatto aspro con il reale… Per questo oggi possono apprensivamente gridare al trauma, preoccuparsi di tutto il tempo irreversibilmente perduto… ma in questo modo correranno l’inevitabile rischio di vittimizzare i loro figli e un’intera generazione». Un monito che lo psicanalista rivolge anche ai ragazzi: «Il lamento non ha mai fatto crescere nessuno», come a dire che ognuno è chiamato a rispondere responsabilmente agli eventi e alle difficoltà del tempo in cui si trova, vivendolo al meglio e contribuendo così a creare un nuovo futuro. Ma i problemi della scuola, oggi così visibili perché ingigantiti dalla lente della pandemia, quando sono cominciati e, soprattutto, da che cosa dipendono?
Questione di relazione (e di potere)
«È dal tempo di Socrate, molto prima della nascita di Gesù, che viene detto e ripetuto che “l’educazione è relazione”» – sottolinea Goffredo Fofi, giornalista, saggista, critico letterario e cinematografico, ma, ancor prima, anzi, prima di tutto, maestro elementare fiero di esserlo –. Benché già in passato ci sia stato chi ha voluto trasformare l’educazione nell’arida predicazione da uno a molti, e la massa degli insegnanti abbia praticato l’insegnamento dall’alto di una cattedra imitando le macchine, il grammofono, la predica, il comizio. Immagini magistralmente fermate in un geniale film di Jean Vigo dei primi anni Trenta, Zero in condotta, e più tardi in almeno due film di Fellini, Amarcord e Roma, dove sfilava sullo schermo una grottesca galleria di insegnanti, messi alla berlina con la violenza di ex bambini che si prendevano le loro vendette.
Che relazione poteva esistere, in quel contesto, tra un tronfio conformista diplomato (o laureato) e un gruppo di bambini inermi consegnati al sadismo che nasceva dalle piccole e grandi frustrazioni di quell’infimo borghesuccio mal pagato e che avrebbe aspirato a ben altro? Da Johann Heinrich Pestalozzi (fondatore della moderna pedagogia che più nessuno, ahinoi, legge e nessun professore di pedagogia fa leggere ai suoi studenti) a Tolstoj, dalla Montessori alla Dolto, da Korczak a Dewey, da Freinet a Borghi eccetera, in tanti ce l’hanno ripetuto, che l’educazione è un fatto di relazione».
Il deficit di relazione nel mondo scolastico, quindi, è cosa datata. Tuttavia oggi, in tempi di Dad, esso è diventato ancor più evidente nel mondo della scuola. Perché se già in passato si perdeva all’interno di ruoli rigidi, com’è pensabile che oggi si sviluppi una relazione autentica tra un bambino e una macchina, tanto più se quel bambino o adolescente non è in grado di intervenire su una narrazione tutta verbale, anche se accompagnata dalla mimica del narratore? «Non somiglia a un videogioco, la lezione online, e ne è anzi il contrario, parodia delle più monotone lezioni “in diretta” di ieri – denuncia ancora Fofi –. Checché se ne dica, anche nel caso di un insegnante il più possibile “gigione”, attore, mimo, io scolaro sono qui, solo o con altri, e posso toccar con mano una penna, un tavolo, un quaderno, mentre “Lui”, il Maestro, il Professore, è un pupazzetto che si agita e parla dentro una scatola, perfino più finto e però assolutamente più noioso di un disegno animato».
«La questione, allora – conclude Fofi – è ancora più grave, io credo, perché questi modi sono destinati a svilupparsi e a portare altre trasformazioni. Il potere si manifesta oggi, e si manifesterà sempre di più (anche in politica, vedi l’esempio che ne dà l’Italia in queste settimane) nel dominio dei due strumenti più micidiali della Grande Mutazione, che è poi, probabilmente, quella che avvicina la Fine: Internet e la Finanza (la Banca) ormai al centro di tutto, onnipresenti strumenti del controllo della quotidianità di tutti e delle loro coscienze, del loro addomesticamento e della loro sudditanza. La nuova scuola a distanza sperimentata in questi cupi mesi e decantata dal conformismo degli opinionisti e dai più pigri professionisti della “trasmissione della cultura” è una scuola d’avanguardia? È questo il futuro della scuola? Meglio allora (prepariamoci!) piccole scuole di pochi resistenti, clandestine o quasi, tutta da ragionare e inventare, insegnanti genitori scolari, nascosta e distante da quella ufficiale».
Nuovi insegnanti per una nuova scuola
Ma non tutto, o non sempre, è così negativo. Perché la pandemia, se da un lato ha ingigantito i vecchi mali della scuola (come, appunto, la vetusta e rigida relazione basata su logiche di potere), dall’altro ha messo in evidenza anche nuovi approcci all’insegnamento, che oggi più che mai sono guardati con interesse. Si tratta spesso, a dire il vero, di esperienze frutto dell’impegno e della sperimentazione di singoli docenti, ma rappresentano comunque delle buone pratiche per una scuola del futuro diversa. E al centro di queste sperimentazioni c’è ancora, manco a dirsi, la relazione, quella vera. Dentro o fuori dal video.
Ne è l’esempio Daniele Manni, insegnante di Informatica e Imprenditorialità all’istituto tecnico economico «Galilei-Costa-Scarambone» di Lecce, primo docente italiano ad aver vinto il Global Teacher Award. In cattedra Manni ci sta da trentacinque anni, senza pentimento alcuno. Forse perché a lui le sfide non hanno mai fatto paura. Anzi, le ha sempre colte mettendo in primo piano i suoi studenti: «La scuola non è un posto dove star seduti, ma un luogo dove non accontentarsi mai, tanto meno delle apparenze, delle partite che sembrano chiuse, di quei ragazzi sui quali si getta la spugna ancor prima di aver provato ad accendere talenti che nemmeno loro immaginavano di avere».
Parlare con questo docente del suo concetto di scuola, e di un amore che non è mai venuto meno in tanti anni, aiuta a capire come, insieme ai suoi studenti, abbia cercato di costruire, con rigore e passione, un nuovo modo di vivere la scuola. «Tanti colleghi si affannano per far rispettare i programmi ed è perfettamente giusto e comprensibile – spiega –. Io dico, però, che prima dei programmi vengono i nostri ragazzi e le nostre ragazze. La scuola deve mettere al centro gli studenti».
Certo, facile a dirsi, ma un po’ meno a farsi. «Da sempre dedico i primi minuti delle mie lezioni a un contatto diretto con i ragazzi – sottolinea Manni quasi rispondendo ai nostri dubbi –. E ho cercato di mantenere inalterata questa modalità anche durante la didattica a distanza. Agli studenti chiedo come stanno, che cos’hanno fatto di recente, l’ultimo video che hanno visto, l’ultima canzone che hanno ascoltato. Quando stavamo insieme in aula dedicavo a questo spazio di relazione cinque minuti; ora, con la didattica a distanza, i minuti sono diventati dieci e anche quindici. Trovo che questo sia un tempo fondamentale per riuscire ad avere poi, mentre spieghi, l’attenzione dei ragazzi».
In questi mesi di pandemia e di blocco totale o parziale delle presenze in aula, il professore ha utilizzato, intensificandone l’uso, tutti gli strumenti, dai canali social alle chat, per rimanere «connesso» con gli studenti. «Insegno Imprenditorialità, materia che si traduce nello sviluppo e nella realizzazione di start-up. In questi mesi, per esempio, abbiamo scelto di investire sull’avvio di una start-up per far conoscere le attività del nostro territorio e la loro offerta in tempo di covid. Ma questo ha comportato un contatto continuo con gli studenti, anche durante il pomeriggio, al di fuori dell’orario scolastico, proprio per dare un supporto costante ai loro progetti».
In questo anno scolastico l’istituto ha cercato di raffinare le prestazioni della didattica connessa. «La didattica attraverso il computer non può essere identica a quella svolta in aula, ma deve sperimentare strade e metodi capaci di tenere alta l’attenzione e la partecipazione attiva dei ragazzi – spiega Manni –. Gli studenti vogliono tornare in classe? È una verità a metà. Insegno da anni, ho una mia convinzione: i giovani non cambiano. C’è sempre, tra loro, chi non è attratto dalla scuola, chi si allontana più che avvicinarsi, chi è svogliato e distratto. La scuola deve porre attenzione soprattutto a questi studenti, deve intercettare i loro sogni, entrare nei loro linguaggi, accendere una luce».
«Fermiamoci un attimo a osservare i nostri ragazzi nei pochi minuti che precedono il loro ingresso a scuola – insiste il prof –. Sono attaccati allo smartphone, tra un video, un selfie e tre chat, una canzone ascoltata in cuffia, e tutti in rapidissima sequenza, all’interno di un mondo colorato e multimediale. Poi entrano in classe e, nel giro di pochi secondi e una manciata di metri, il mondo, per loro, si fa improvvisamente grigio. Qui sta il punto, a mio avviso, da cui partire: offriamo ai nostri studenti idee, concetti, programmi utilizzando il loro linguaggio. Ovviamente alternando, spezzettando anche nel ritmo, lezioni e nozioni, magari con un video o con il richiamo a qualcuno o a qualcosa che conoscono attraverso i social. Facciamolo in maniera intelligente e accurata, mai improvvisata. Nei ragazzi distratti che in tanti etichettano come “sfaticati” cerco sempre di trovare una molla, uno spunto, qualcosa che li interessi sul serio. È una costruzione lenta, ma vale sempre la pena».
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