«Solleviamo lo sguardo e ripartiamo»
«Portano via tutti i nostri morti», è il lamento di Ecuba. Non li hanno potuti vedere, non li hanno potuti seppellire. Proprio come noi tutti, nei giorni disperati della pandemia. Il mondo è sconvolto, il presente è incerto, il futuro ancora sconosciuto. Si attende una luce oltre il buio, ma noi «dobbiamo rialzare la testa», dice la regina.
Euripide scrisse Le Troiane nel 415 a.C., eppure in quel testo di più di 2.400 anni fa c’è sorprendentemente tutto di noi e della nostra vita: «Davvero la tragedia greca ha la forza di raccontare anche l’oggi. Perché nella storia dell’umanità, in condizioni differenti ma in modi uguali, si ripropongono le stesse situazioni. L’immagine tragica e l’accadimento sono identici dal V secolo a. C.», sottolinea Andrea Chiodi, apprezzato regista, allievo di Piera Degli Esposti, che, con la drammaturga Angela Demattè, ha affrontato la sfida di far diventare Le Troiane voci e testimoni del nostro tempo difficile.
Lo spettacolo (prodotto dal Centro Teatrale Bresciano) ha debuttato lo scorso settembre al Sociale di Brescia, prima che le restrizioni d’autunno chiudessero nuovamente i teatri, e – se condizioni sanitarie e decreti lo permetteranno – nei prossimi mesi viaggerà in tournée per l’Italia: protagonista è un’intensa e magnetica Elisabetta Pozzi, insieme a Federica Fracassi, Valentina Bartolo, Alessia Spinelli e Graziano Piazza.
Ecuba, la figlia Cassandra, Andromaca, Elena: le donne di Troia. La loro città è stata sconfitta, i loro uomini trucidati, e loro sono state fatte prigioniere: gli Achei verranno a prenderle come schiave. Hanno negli occhi il male che hanno dovuto subire, non sanno cosa riserverà il futuro. Andrea Chiodi ce le presenta all’interno di una stanza, forzatamente recluse e confinate, come tutti noi nel lungo lockdown, e tra quelle mura domestiche si dipana il racconto del loro destino.
«Quando la scorsa primavera abbiamo iniziato a lavorare sul testo de Le Troiane, il primo pensiero è andato alla tragedia entrata in tutte le nostre case – confida Chiodi –. In fondo, Euripide ci presenta un momento familiare, una madre, le sue figlie, unite e colpite da una stessa tragedia. Ecco perché ho voluto collocarle in una casa immaginaria, molto simile alle nostre».
In questa casa le Troiane rivedono la loro vita: «Non c’è stata sepoltura per i loro morti. Come non pensare immediatamente ai morti per la pandemia? Anche il rito più profondo è stato sacrificato in virtù di un’esigenza sanitaria: la disumanizzazione totale – aggiunge il regista –. Ad Andromaca poi viene strappato il figlio Astianatte: il suo racconto straziante mi ha ricordato i diari dai campi di concentramento, quando le madri venivano separate dai figli. Affetti spezzati, persone che non hanno più potuto abbracciare i loro cari. La storia è pervasa da immagini tragiche, le stesse che la tragedia greca ci ha consegnato da 2.500 anni».
«Lascia ch’io pianga mia cruda sorte e che sospiri la libertà» sono i celebri versi dal Rinaldo di Haendel che Andrea Chiodi ha scelto per aprire lo spettacolo. E subito sentiamo le voci dei capi di Stato e di governo che annunciano le chiusure, il blocco delle attività, il gelo, come gli dei che nel mito antico muovevano i destini umani. Il dramma delle donne di Troia, dunque, si proietta immediatamente nei nostri giorni.
A Cassandra, la profetessa, Chiodi affida la visione del nostro presente, con le immagini dei barconi carichi di dolore e di speranza o la figura gigantesca di papa Francesco solo in preghiera nella piazza San Pietro deserta, davanti a un grande Sole, l’Eucaristia. Mentre Elena, immagine della bellezza ingannatrice, è come una strana influencer che, stravaccata su una poltrona, continua a scattarsi selfie e a parlare di sé, e quando viene portato in scena il piccolo Astianatte, ormai senza vita, per prima cosa lo riprende col suo smartphone.
Sembra il simbolo di tutto il mondo del web e dei social network, dove la vita è solo quella che viene mostrata attraverso uno schermo, «e spesso ci commuoviamo più per le immagini che per la realtà», osserva il regista che ha trasformato anche il coro, elemento chiave della tragedia greca: i volti delle donne che recitano i versi di Euripide sono proiettati su uno schermo, come in una videoconferenza su Skype o su Zoom.
Per l’universalità del suo messaggio, già altre volte la tragedia greca ha ispirato parallelismi con la contemporaneità. Nel 1965, per esempio, Jean Paul Sartre curò un adattamento de Le Troiane in cui fece rispecchiare la disfatta francese nella guerra postcoloniale di Algeria. Mentre la Theater of War Production, compagnia teatrale statunitense che recita i testi antichi ai soldati delle basi militari per affrontare il disturbo da stress post traumatico, di recente ha proposto il Filottete di Sofocle ai medici e agli infermieri in prima linea della zona di Baltimora. Filottete è rimasto solo su un’isola deserta, urla di dolore, e Odisseo, che lo aveva abbandonato, torna a prenderlo perché sa che i greci non vinceranno mai senza di lui.
«Bryan Doerries, fondatore del Theater of War, si è reso conto che il Filottete parlava della malattia cronica, del fatto che ogni malato è un’isola deserta, e della tentazione di mollarlo lì e dimenticarlo», ha annotato la scrittrice Elif Batuman in un articolo sul «New Yorker», ripreso in Italia da «Internazionale». Nel dolore di Filottete e nella sua paura di essere lasciato solo, abbandonato, alcuni medici hanno visto le stesse paure dei pazienti covid. Peraltro, quando nacquero capolavori come Ecuba, Le Troiane o Edipo Re, era certamente ancora vivido il pungente ricordo dell’epidemia di peste che sconvolse Atene nel 430 a. C.
Dunque ci si trova sempre a confronto con l’immensa questione del male. «Partiamo da Le Troiane di Euripide per interrogarci sul senso del tragico e del male che entra nella nostra vita – riprende Andrea Chiodi –. La storia ce lo ripropone sempre. Non so se siamo noi che non impariamo mai, o se il destino dell’uomo sia di stare davanti al male per poi capire meglio dove stia la salvezza». Già: come si risponde al male? Con quale forza? «C’è un bene misterioso che gli antichi conoscevano, anche se i tragici greci non risolvono la questione. Solo col cristianesimo abbiamo appreso il perdono e la misericordia», continua il regista, ed è proprio il mistero che ci può permettere di cercare di superare l’angoscia più tremenda: «La drammaticità della vita non può essere risolta con un semplice “Andrà tutto bene”. Preferisco l’idea di prendere sulle spalle una croce e vedere cosa accade. Mi sembra più realistico».
E come ci ricorda Ecuba, solenne, occorre sollevare lo sguardo e rialzare la testa, provare a ripartire, andare incontro al male, anche se diventa sempre più difficile. Il dolore e la dignità si tengono per mano: profondamente umani ma con un passo che sfiora il Divino.
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