Tanti popoli, una sola storia
Ma lo sai che l’amico che stai andando a trovare ha una moglie etnicamente impura? Ma lo sai che il tuo parente, creduto da tutti un eroe della seconda guerra mondiale, era schierato con l’altra parte? Ma lo sai che quella che sembra un’amica, in realtà è… Non lo sapevo e non volevo saperlo. Mentre i miei interlocutori sembrava possedessero mappe criptate dove le appartenenze nazionali, le genealogie familiari, le fedeltà politiche erano ricostruite con chiarezza cristallina. Per il crescente nazionalismo, il singolo poteva essere solo a una dimensione, inchiodato alla propria nazionalità che non lasciava alcuno spazio per dire «Io». Negli anni Novanta del secolo scorso ero giornalista, ero nata a Zagabria, ma vivevo in Italia da quando ero ragazzina, e avevo amici in tutte le capitali della ex Jugoslavia. Continuavo a frequentare ambienti diversi, cambiavo città con la sensazione di non riuscire ad afferrare il significato di una nuova lingua che divideva il serbo dal croato e rendeva precario l’equilibrio tra le diverse nazionalità.
Il mondo di ieri iniziava a traballare, ogni dritto aveva il suo rovescio, il sospetto faceva capolino tra le parole: lentamente ma inesorabilmente il vicino diventava il nemico. Il conflitto inter-jugoslavo di fine Novecento ha avuto bisogno di un’incubazione infinita: una «guerra delle parole» che, come fossero pallottole, ha creato i buoni e i cattivi, ha introdotto nel discorso comune la separazione tra «noi» e «loro». Le guerre contemporanee, apocalittiche e anacronistiche, rievocano le guerre di liberazione patriottica e attingono i loro ideali dal passato: nazionalista, comunista, nazista. Diventa necessario «alimentare» il presente con la memoria storica – personale familiare collettiva – più o meno manipolata. Così si costruiscono narrazioni guidate da «la profonda e consolidata convinzione umana che qualche provvidenza abbia reso la sua tribù e la sua razza o classe, casta o religione “naturalmente” superiore ad altre».
Il concetto di pseudospeciazione, che l’etologo Eibl-Eibesfeldt sviluppa a partire da questa considerazione dello psicologo e psicoanalista Erik Erikson, conduce un dato gruppo a disumanizzare gli individui dei gruppi vicini, a giustificare azioni che oltrepassano i meccanismi inibitori della violenza interna alla stessa specie. Meccanismi di esclusione e di inclusione che individuano ogni volta un criterio di selezione – l’ebreo che non è più un tedesco, il nero che non è più un americano – per individuare il nemico. E sono analoghi a quelli delle aggregazioni di adolescenti che, attraverso l’invenzione di un gergo e di una serie di riti collettivi, creano una nuova tribù.
«Non va sottovalutato il vantaggio di vivere in un ambito di civiltà circoscritto, che consente alla pulsione aggressiva una via d’uscita rappresentata dall’ostilità verso gli esterni. È sempre possibile tenere unito nell’amore un gruppo, anche consistente, di persone, purché ne esistano altre su cui sfogare l’aggressività. Mi sono occupato una volta del fenomeno per cui proprio comunità limitrofe, e affini anche per altri versi, si combattono e scherniscono reciprocamente: si pensi a spagnoli e portoghesi, tedeschi del Nord e tedeschi del Sud, inglesi e scozzesi e via dicendo. Lo definii – senza contribuire molto alla sua spiegazione – narcisismo delle piccole differenze». Freud descrive così, ne Il disagio nella civiltà (1929-1930), una situazione che ben si adatta al mondo contemporaneo di meticciato globale dove l’eccesso di rivalità tra diverse culture diventa pericoloso.
Dopo il secondo conflitto mondiale si è però sviluppata anche una diffusa cultura della pace. L’articolo 28 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) parla di un mondo libero e giusto dove anche la pace è un diritto. E in diversi Stati europei l’educazione alla pace è diventata materia scolastica. In Amore e odio. Per una storia naturale dei comportamenti elementari (1970) Eibl-Eibesfeldt afferma che «gli impulsi aggressivi dell’uomo vengono controbilanciati da inclinazioni alla socievolezza e al soccorso reciproco altrettanto profondamente radicate». La cura della prole e le preoccupazioni per il futuro del bambino rappresentano un importante fattore motivazionale. Il legame con il piccolo si instaura attraverso la cura: il figlio è un «oggetto di assistenza».
La «fiducia originaria» è premessa indispensabile affinché il bambino abbia in seguito una disposizione positiva nei confronti della società. Per imparare a non farsi guerra, conclude Eibl-Eibesfeldt, bisogna ripartire anche da questa relazione originaria. Raccontare la molteplicità dei punti di vista, riconoscere la somiglianza col nemico depotenzia il desiderio di combattere, come nella straordinaria scena del film Lettere da Iwo Jima, nella quale i soldati americani scoprono che le lettere scritte a casa dai soldati giapponesi sono uguali alle loro. Contengono le stesse emozioni, le stesse paure. Impossibile non capirsi.
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