Ho paura di te
Vorrei condividere con voi l’esperienza di un incontro che ho raccontato raramente e che ancora mi tocca quando la rammento. Alcuni anni fa passeggiavo per il centro di Firenze, in via del Corso, in una tiepida sera di primavera. A un certo punto mi imbattei in un giovane che stava sulla strada: non sono sicuro che fosse un senza fissa dimora, comunque certamente stava sulla strada. Mi guardò e mi fece: «Ce l’hai qualche soldo?». Io mi fermai e lo osservai, colpito dai suoi occhi chiari e limpidissimi. «Vorrei bere qualcosa», proseguì. Senza pensarci troppo, mi chinai verso di lui, gli allungai 10 euro e gli dissi: «Mi raccomando, spendili solo per bere alla mia salute, non ci fare nient’altro». La buttai sull’ironia, non volevo fargli la predica. Il giovane si mise a ridere. Io stavo per rialzarmi e per andarmene, perché lo avevo già aiutato, avevo già fatto la mia opera buona, quando lui mi disse: «Lo potremmo fare insieme». Rimasi un po’ sbalordito e interdetto: non mi aspettavo questa insolita richiesta; pensavo di essermela cavata dandogli dei soldi. Questa richiesta inaspettata poneva la relazione a un altro livello. «Lo potremmo fare insieme», mi ridisse con dolcezza e con quegli occhi penetranti.
Io potevo accampare scuse: in fondo era tardi e volevo andare a cena, ma non riuscii a fare nient’altro che dirgli: «Perché no?». In centro a Firenze non mancano di certo le osterie. Trascorremmo più di due ore, o forse tre, a bere del buon vino e a parlare come vecchi amici. Lui parlava di sé e mi raccontava, io di me e gli raccontavo. Alla fine della serata, era tardissimo, ci abbracciammo, dopo che io gli avevo fatto il mio fervorino: «Guarda, se vuoi conosco un po’ di gente, se vuoi dormire al riparo ti posso aiutare a trovare un alloggio». Fulminante la sua risposta: «C’ho messo tanto tempo a diventare libero così e tu mi vuoi rimettere in gabbia?». Poi, mentre me ne stavo per andare, mi richiamò, io tornai indietro, mi abbracciò e mi sussurrò: «Stasera mi sono risentito un uomo». E io, di rimando: «Anch’io». Porto ancora nel cuore questo incontro, perché ogni felicità è condivisione (cfr. S. Olianti, A. Jacopozzi, Lo sguardo dell’altro. Per un’etica della cura e della compassione, EMP, Padova, 2020, pp. 54-55).
Di primo acchito, l’altro, il diverso da noi ci spaventa, come ci spaventa tutto ciò che non conosciamo, che non ci è familiare, che non rientra nei nostri schemi; siamo condizionati dai nostri pregiudizi, magari da qualche esperienza pregressa negativa che ci ha ferito. Eppure la nostra vita è intessuta di relazioni: nessuno di noi è felice da solo né può vivere pienamente senza relazioni nutrienti. Dalla domanda di Dio a Caino («Dov’è Abele, tuo fratello?», Gen 4,9) scaturisce non solo tutta la filosofia ebraica del ’900, da Martin Buber a Emmanuel Lévinas, ma anche il mio percorso interiore di uomo e di psicologo alla ricerca di un significato da dare alla mia vita, alle mie relazioni e alle relazioni di tante persone che accompagno e che mi chiedono: «Perché è così difficile l’incontro con l’altro?», «Perché è così complicato mantenere solide amicizie e perfino continuare a desiderare una storia d’amore, che pure ci ha coinvolto e occupato la mente e il cuore per anni?», «Perché l’altro, nella sua diversità, talvolta ci fa paura, costringendoci ad alzare le difese e impedendoci così la gioia della condivisione?». Perché l’altro limita il nostro bisogno nevrotico di espansione dell’ego, ci chiama continuamente a uscire dalla prigione narcisistica dei nostri bisogni non appagati.
Questo gli esistenzialisti lo avevano capito bene, soprattutto Sartre: l’altro è colui che ti limita nella possibilità di espandere il tuo io, per cui è un inferno, un nemico. L’altro ci costringe a prendere le misure, a rimodulare costantemente i nostri bisogni e i nostri appetiti, spingendoci ad alzare lo sguardo dal nostro celebrato ombelico per incontrare il suo sguardo. Solo così può nascere una relazione nutriente che dà calore e gioia alla vita. Durante un bel convegno all’Università di Catania, me ne andavo al sorgere del giorno a passeggio per le strade che conducono al mare. Mi imbattei in un graffito su un muro che mi folgorò: «Riflesso nei tuoi occhi sono bello anch’io». Ci si riconosce solo nello sguardo dell’altro. L’Io, per vivere e non soltanto sopravvivere, ha bisogno del rapporto con un Tu. Solo lo sguardo dell’altro che si poggia su di noi ci fa esistere, così come senza il nostro sguardo l’altro non esiste. Isolati si muore, amati si vive. Sì, il volto e lo sguardo dell’altro hanno il potere di umanizzarci pienamente, spezzando il giogo dell’isolamento e dell’anonimato e nobilitando pienamente la nostra dignità di persone.
La compassione per uno sguardo è l’unica risposta possibile al mistero del male, perché ci sottrae all’indifferenza e alla pretesa di bastare a noi stessi. A questo proposito, c’è un famoso apologo attribuito al maestro cinese Mencio, che ben sintetizza quanto ho voluto esprimere finora: «Un re, recatosi al tempio, vide passare accanto a sé un vitello condotto al sacrificio. Lo guardò, fissò i suoi occhi spaventati e ordinò di lasciarlo andare. I sacerdoti gli chiesero: “Dobbiamo rinunciare al sacrificio?”. Ma egli rispose: “No, continuate con altri”. “Perché dunque – gli domandarono di nuovo – risparmiare quel vitello?”. Rispose: “Perché quando mi è passato vicino ho incrociato i suoi occhi”». Incrociare lo sguardo dell’altro muove a compassione. Forse è proprio per questo che ai deportati nei campi di sterminio venivano tolte subito le insegne più immediate e autentiche della dignità umana: il nome e lo sguardo. Chiamare per nome e guardare negli occhi le vittime le avrebbe umanizzate, rendendo impossibile trattarle con disumana violenza e crudeltà.
Ma l’incontro con l’altro richiede coraggio e fiducia, e se la paura paralizza le intenzioni, il coraggio ci permette di esporre la nostra vulnerabilità, perché «la porta della felicità si apre soltanto verso l’esterno» (Kierkegaard); chi tenta di forzarla verso l’interno la chiude ancora di più. Per esistere, dunque, e non solo vivacchiare, bisogna che la nostra vita sia bella, bisogna che noi diventiamo belli, affinando la nostra bellezza interiore, imparando ad accogliere l’altro come un dono e non come una minaccia, imparando ad amare davvero se stessi con lo sguardo con cui ci ha amato chi ci ha dato la vita e a vivere con un cuore largo e pieno di compassione. Imparando a prenderci cura del destino dell’altro e di tutto ciò che ci circonda, ci avviciniamo al segreto di una vita riuscita e possiamo celebrare ogni momento la nostra umanità e la gioia incontenibile di essere vivi.
San Giovanni Bosco, esperto di fiducia
«In ogni giovane, anche nel più disgraziato, c’è un punto accessibile al bene». Questa profonda convinzione radicata nel cuore di don Bosco rappresenta uno degli aspetti essenziali della sua santità: la fiducia nelle possibilità dell’altro che, pur trovandosi in condizioni disperate, può rialzarsi e ripartire, con l’aiuto del Signore. Già da piccolo, Giovanni Bosco (Castelnuovo d’Asti, 1815) sente la chiamata a uno stile di relazione basato sull’amorevolezza e sull’amabilità; molte volte ricorderà un sogno in cui, mentre è insieme ad altri ragazzi che ridono, giocano e pure bestemmiano, egli si lancia per farli tacere con parole e pugni, ma viene fermato da una voce che dice: «Dovrai farteli amici non con le percosse, ma con la mansuetudine e la carità».
È questo un aspetto centrale del Sistema Preventivo che svilupperà nell’educazione dei giovani, soprattutto a partire dall’esperienza concreta vissuta nell’incontro con i ragazzi della società torinese: siamo a metà del 1800, e il giovane don Bosco, insieme a don Cafasso, decide di andare nei luoghi del degrado e nelle carceri per incontrare i ragazzi, specialmente gli «scarti» della società. Entra in relazione con loro, li difende contro i soprusi subiti (soprattutto lo sfruttamento del lavoro minorile), fino a radunarli attorno a sé in quello che nel 1842 diventa l’Oratorio salesiano, dedicato a san Francesco di Sales e ispirato alla sua bontà amorevole. In questo ambiente si coltiva l’amicizia tra i giovani e si sostiene la loro istruzione: tutto ha origine dal conquistare la loro fiducia, cominciando dal promuovere la stima di loro stessi e dall’avvicinarli al Signore, mettendoli in contatto con il desiderio di Dio che ciascuno porta nel profondo. Perciò è necessaria una guida spirituale, un riferimento che accompagni il cammino di crescita e di scoperta dei talenti presenti in ciascuno, cosa che stava particolarmente a cuore al santo piemontese, patrono degli educatori. (M.P.)
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