12 Novembre 2020

Tarkovskij: missione regista

Nel documentario «Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera» il figlio del grande regista ripercorre le tappe del padre, artista che seppe tradurre la vita in visioni mai viste.
Tarkovskij: missione regista

La pellicola Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera si snoda dall’infanzia del grande regista e scrittore russo Andrej Tarkovskij (Russia 1932 – Francia 1986) fino alla maturità artistica e alla prematura scomparsa. La coda del film ci riporta circolarmente indietro all’adolescente, al bambino, ai suoi primi passi nel mondo. Il figlio del cineasta, Andrej Andreyevich (nato a Mosca nel 1970, presidente dell’Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, con sede a Firenze), raccoglie foto e video d’epoca, audio inediti, interviste e lezioni di cinema, immagini girate nei luoghi di vita e lavoro, che videro crescere l’intelligenza vorace e combattiva del padre, una mente incompresa nel proprio Paese natale, costretta a emigrare pur di continuare a lavorare.

Il regista firmò solo otto film, otto memorabili opere, che ebbero emulazioni e influssi a livello mondiale. Il documentario Il cinema come preghiera è scandito anch’esso in otto capitoli, nei quali possiamo ascoltare direttamente la voce inesausta, decisa, appassionata del regista. Lo vediamo sul set o impugnare una cinepresa artigianale o conversare con la moglie, i figli, gli amici, i giornalisti. Vengono offerte sequenze selezionate delle sue opere, come l’ultima, Sacrificio (1986), in cui il protagonista fa un voto. Sacrificherà ogni suo possesso in cambio della vita dei suoi cari, messa in pericolo da un’imminente guerra atomica. «Tutto ciò che non è necessario è peccato» recita il protagonista. Allo stesso modo il grande regista «sacrificò» la sua vita, la bruciò in una luce abbagliante, la tradusse in visioni mai viste. 

Elogio della lentezza

Che cosa c’è in comune tra quegli otto film e le icone russe dipinte dal monaco Andrej Rublëv (vedi il film omonimo, Urss 1966), vissuto dal 1370 al 1430? Non è un cinema d’azione, quello di Andrey Tarkovskij e non appartiene al genere di contenuto religioso. Il suo respiro sacro si apprezza per la meditazione sul tempo, che le immagini offrono. Un tempo solenne, lunghissimo, onniavvolgente. Ciò che accade è meno importante del ritmo con cui accade, delle pause, dei rallentamenti, delle accelerazioni, delle sospensioni drammatiche, che assomigliano a un fermo immagine, a una fotografia dilatata, all’impercettibile ma indubitabile moto degli astri.

Quando non accade nulla, lo spettatore è, poco alla volta – e con estrema fatica –, risucchiato in un mondo che egli non ha mai abitato. Il suo sguardo non è violentato da effetti speciali, ma carezzato da visioni immobili, che lo inchiodano alla poltrona, gli impediscono di evadere e gli restituiscono la libertà di sognare, immaginare, riempire i vuoti, entrare nella scenografia. L’attenzione può spostarsi dove vuole, perché se non avviene nulla di speciale, tutto può essere la sede di un’epifania, di una rivelazione, di un’apocalisse, di un’uscita dal nascondimento. Chi guarda, impara che non conta la velocità o la frenesia dei fatti, ma la conversione alla lentezza dei movimenti, delle occhiate, del respiro, dei battiti cardiaci, del pensiero.  

Dedizione integrale

La seconda lezione etica riguarda la dedizione integrale alla missione di regista, una missione che aveva il carattere di una preghiera, poiché sapeva esprimere gli affetti e le idee – grandi e piccole – al cospetto e nel dialogo col trascendente, inteso come l’emozionante fonte di senso, di verità morale, di crea­zione artistica, di sperimentazione visiva e sonora. Una fonte estetica che lo sorprendeva e seduceva, che reclamava obbedienza nelle letture preparatorie, nella sceneggiatura, nel montaggio, nella scelta degli attori, nel lavoro con la troupe.

I grandi geni, cui Tarkovskij si ispirava (Leonardo, Bach, Tolstoij, Dostoevskij) non erano – secondo lui – produttori d’opere dotati di perizia tecnica, ma uomini di poesia, «posseduti» dalla bellezza, che faceva loro appello e soffiava in essi l’alito creativo, di cui i loro testi erano un segno estatico, sempre frammentario e incompleto. Come un salmo interrotto, un’invocazione trattenuta, come la fotografia prospettica di un orizzonte bellissimo e irraggiungibile. Non si «inventa», non si «fa» un capolavoro. È l’opera piuttosto che ti dà vita: «Un capolavoro (leggiamo in una nota di regia) può essere manifestazione di un’anima che ti sfiora mentre sale verso l’alto, verso il cielo, frusciandoti accanto e lasciando dietro di sé solo un soffio di vento che puoi percepire…».

 

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Data di aggiornamento: 12 Novembre 2020
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