Venere cristiana

Testimone della morte e risurrezione di Cristo, ma anche peccatrice redenta, santa eremita, dama dalla bellezza magnetica: è la Maddalena, cui i Musei San Domenico di Forlì dedicano una grande mostra.
10 Giugno 2022 | di

In ebraico è nota come Miryam. Maryam in aramaico. Noi però la conosciamo più semplicemente col termine greco Maria. Porta lo stesso nome della madre di Gesù questo personaggio femminile che ricorre spesso nei Vangeli canonici e, ancor più spesso – complice la letteratura apocrifa e agnostica –, a partire dal III secolo è confuso con altre due donne bibliche: la peccatrice redenta che lavò con le lacrime i piedi di Gesù e Maria di Betania, sorella di Lazzaro. La Maria in questione, però, viene da Magdala, cittadina della Galilea sulle sponde del lago di Tiberiade, dove si ergeva una torre romana (migdol). Da qui l’appellativo Maddalena per questa discepola di Gesù che lo seguì fin sul Calvario. «La Maddalena è la prima a vedere la tomba vuota dove Cristo è stato deposto; l’unica a vedere due angeli; la prima a vedere il Signore risorto e a parlare con lui, forse a toccarlo. È lei, dunque, la prima testimone di un fatto inaudito. Prima degli apostoli, sui quali poi si costruirà la Grande Chiesa. Sulla sua parola poggiano la fede e il destino dei primi cristiani e delle prime comunità». A parlare è Gianfranco Brunelli, direttore delle mostre ai Musei San Domenico di Forlì, dove è aperta, fino al 10 luglio, l’esposizione «Maddalena. Il mistero e l’immagine» a cura di Cristina Acidini, Fernando Mazzocca e Paola Refice. Dodici sezioni e oltre duecento opere che, dal ’300 al ’900, svelano i molti volti della «Venere cristiana» in cui ogni secolo, in base alle rispettive sensibilità, si è identificato.

Peccatrice da cui Gesù aveva fatto uscire ben sette demoni (cfr. Luca 8,1-2), pia donna testimone della risurrezione di Cristo, santa eremita, dama dalla bellezza magnetica… Ma chi era davvero la Maddalena? Parte proprio da questa domanda la mostra forlivese che traccia un itinerario alla scoperta del «maggior mito femminile della storia dell’arte», con l’aiuto di dipinti, sculture, arazzi, miniature, argenti e opere grafiche provenienti da prestigiosi musei, come il Centre Pompidou di Parigi, il Musée de Grenoble e le Gallerie degli Uffizi. Per gli artisti in mostra «la Maddalena rappresenta una figura libera di provare sentimenti e di esprimersi, a differenza della Madonna e di san Giovanni, che impongono una disciplina al loro cordoglio» spiega Cristina Acidini nel documentario di Sky Arte Maria Maddalena – La vera storia. Una figura, dunque, a suo modo «rivoluzionaria» che, traendo linfa da varie citazioni del Vangelo, intercetta i bisogni dell’uomo. «Per dirla alla Flaubert – aggiunge Paola Refice – Maria di Magdala incarna quell’eterno femminile che è in ognuno di noi».

Sotto la croce

Ma torniamo all’immagine più «tradizionale» della Maddalena quale testimone sotto la croce e al sepolcro. La prima sezione della mostra di Forlì rende omaggio proprio ai grandi temi della Passione. Vedere per credere il Cristo crocifisso con la Maddalena ai piedi della Croce di Giovanni da Gaeta (1460 circa) e quello dipinto da Federico Barocci (Cristo crocifisso e i dolenti, 1599-1604). Se nel primo caso la discepola, stretta ai piedi del suo Maestro, quasi si fonde con la croce, oltre un secolo dopo una Maria di Magdala avvolta in preziose vesti fissa non più con le braccia, ma con gli occhi e la forza della preghiera, il Messia. Sia che Gesù resti inchiodato al legno della croce, sia che venga adagiato a terra, la Maddalena non abbandona mai la scena. La sua presenza, seppur relegata sul fondo, di spalle, con le mani alzate, trafigge la tela come un grido nella Crocifissione del Masaccio del 1426. Attraverso deposizioni e compianti (su tutti la Deposizione dalla croce di Marc Chagall (1968-76) e il Compianto sul Cristo morto di Guido Mazzoni, 1483-85), la mostra di Forlì conduce al tema della risurrezione e a un momento in particolare.

A raccontare l’incontro della Maddalena col Cristo risorto è il Vangelo di Giovanni (Gv 20,1-8). Dopo essersi recata con la mirra al sepolcro per ungere il corpo di Cristo, e avendolo trovato vuoto, Maria di Magdala si abbandona al pianto. Almeno finché non le appare una figura inattesa: «Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”». Prendono spunto da quel «Non mi trattenere» (in latino Noli me tangere, spesso tradotto con «Non mi toccare»), i tantissimi artisti che a partire dal Rinascimento rappresentano il sacro incontro. Anche ai Musei San Domenico la storia si ripete nelle tele del Tintoretto (1595) e del Veronese (1580), di Pietro da Cortona (1640) e di Louis de Silvestre (1735), fino a un Graham Sutherland in stato di grazia. Il suo olio su tela (Noli me tangere, 1961) sintetizza l’ascesa di Cristo al cielo, in un gioco di linee incrociate e parallele. Mentre il Salvatore incurvato dall’ombra della croce, che ancora grava su di Lui, si appresta a salire la scala verso il Paradiso, la Maddalena sfiora timidamente la sua veste in un disperato tentativo di congelare l’istante.

Oltre la discepola addolorata, la mostra ai Musei San Domenico prosegue nel segno delle molte altre identità cucite addosso alla Maddalena nel corso dei secoli. Si va dalla santa penitente a cui il Maestro della Maddalena dedica una grande tavola agiografica (Santa Maria Maddalena penitente e otto storie della sua vita, 1280-1285) alla bellezza estatica dipinta da Tiziano Vecellio (Santa Maria Maddalena penitente, 1566-67). C’è chi la immagina come un’eroina, con tanto di veste dorata e vasetto degli unguenti (Luca Signorelli, Maria Maddalena, 1504) e chi la celebra come una gran dama (Seguace di Rogier van der Weyden, Compianto su Cristo morto, fine del XV secolo). Se nel ’500 è l’apostola che ha saputo affermarsi in un ambiente prettamente maschile, con l’avvento del XVII secolo Maria di Magdala diventa simbolo di sensualità, ma anche di penitenza ed estasi. Non a caso, accanto al suo bel volto compare spesso il teschio, un monito a non scordare mai la caducità umana. Ne sanno qualcosa, tra gli altri, Guido Cagnacci (Santa Maria Maddalena penitente, 1626-27), Jusepe De Ribera (Santa Maria Egiziaca, 1651) e Guido Reni (La Maddalena con due angeli, 1627).

Man mano che l’opulenza barocca cede il passo al secolo dei lumi, la nostra protagonista recupera nell’immaginario degli artisti una dimensione sempre più essenziale e meditativa. Da Canova (Maddalena giacente, 1808-9 e Maddalena penitente, 1812) a Eugène Delacroix (Cristo sulla Croce, 1835) e Arnold Bőcklin (Maria Maddalena penitente, 1873), la lista di maestri conquistati dalle virtù di Maria di Magdala è davvero lunga. Quando il XX secolo bussa alla porta, il mondo si prepara a nuovi cambiamenti. E così anche l’immagine della santa. Nel Novecento assistiamo alla nascita di una Maddalena combattiva, simbolo di resistenza e protesta, in risposta a un clima di ingiustizie e dolore. Il dolore di chi vive sulla propria pelle la guerra, la miseria, il distacco dai propri cari. Ancora una volta, Maria di Magdala produce immedesimazione nell’artista e nel pubblico. Come quando Renato Guttuso la inserisce completamente nuda nella Crocifissione del 1941. «Questo è tempo di guerre, gas, forche, decapitazioni – annota il pittore siculo –. Voglio dipingere questo supplizio del Cristo come una scena di oggi. (…) Come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio per le loro idee». Di fronte alla sofferenza, siamo in fondo tutti uguali, indifesi e – come insegna la Maddalena di Guttuso – nudi.

Oltre settant’anni dopo, la stessa lezione ritorna a noi, questa volta in versione digitale. È il 2017 quando il video artista Bill Viola filma una donna senza veli che procede verso lo spettatore sotto una pioggia torrenziale. «Acceptance (questo il nome dell’opera ispirata alla Maddalena penitente di Donatello) fa parte della serie Transfigurations che riflette sul passare del tempo e sul processo di trasformazione dell’essere interiore di una persona» spiega Viola. Cambiano gli strumenti e i supporti, ma la forza evangelizzatrice della «Venere cristiana» non cambia mai. Del resto, se papa Francesco nel 2017 l’ha definita «apostola della nuova e più grande speranza» e ha elevato la sua festa liturgica (22 luglio) allo stesso grado di quelle degli apostoli un motivo ci sarà!

 


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Data di aggiornamento: 10 Giugno 2022

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