Volontari e immigrati
Da vittime a protagonisti. Sono sempre di più i cittadini di origine immigrata impegnati nelle associazioni di volontariato italiane, che si battono per il bene di tutti. Un fenomeno nato sottotraccia, che oggi in Italia ha numeri e motivazioni sempre più significativi, come dimostra «Volontari inattesi», la prima indagine nazionale sul tema, appena conclusa. Condotta dal Centro studi Medì e promossa dal CSVnet, con la direzione scientifica del sociologo Maurizio Ambrosini, la ricerca capovolge la narrazione corrente: «Finora il ruolo attivo era svolto dai volontari italiani – afferma Ambrosini –, mentre gli immigrati stranieri erano i beneficiari; i dati raccolti sul campo raccontano tutta un’altra storia». La ricerca ha l’obiettivo di mettere in luce chi sono questi «nuovi volontari», le motivazioni che li spingono, il potenziale che potrebbero esprimere all’interno delle associazioni di volontariato.
Già un sommario identikit mette alla porta molti pregiudizi: i volontari sono in maggioranza donne, hanno un livello culturale medio-alto e un buon grado d’integrazione nel territorio.
Tante le storie di grande valore sociale, come quella di Ana Maria Mengue Esono, originaria della Guinea Equatoriale, oggi presidente dell’associazione «Donne in movimento», di Pisa, che lavora a favore delle vittime della tratta e delle donne che subiscono violenza. «Sono arrivata in Italia nel 1999 come studentessa, grazie a una borsa di studio», dice. Per rimanere nel Paese ha fatto la colf, la badante, la baby sitter: «Eppure, anche quando ho trovato un lavoro stabile, la passione per il volontariato non è mai venuta meno». Oggi Ana Maria è un punto di riferimento per il territorio: «Mi chiamano le forze dell’ordine, gli ospedali. A qualunque ora. E io, che non ho la patente, inforco la bici e parto. Quando sei coinvolta non riesci mai a staccare».
Da minaccia a risorsa
Nella ricerca, basata su 658 questionari, 100 interviste approfondite in 163 città italiane, convergono anche le esperienze di cinque grandi reti nazionali del terzo settore come Avis, Misericordie, Fai, Touring Club e Aido. Le risposte hanno sorpreso lo stesso direttore scientifico: «Non avrei mai immaginato un’adesione così numerosa alla ricerca – commenta Ambrosini –. Dati alla mano, posso dire che siamo di fronte a un fenomeno controcorrente. L’immigrato vissuto solo come peso, minaccia, bisognoso di aiuto, in molti casi ha già passato la linea rossa che separa chi dona da chi riceve: non è più un soggetto passivo, ma agisce attivamente per risolvere i problemi della comunità di cui si sente parte».
Andando nel dettaglio, le donne immigrate volontarie sono il 52,4 per cento, l’età media è di 37 anni – «quindi molto più giovane dell’età media dei volontari italiani» – . I più numerosi sono i ragazzi dai 20 ai 24 anni (17 per cento). Quasi l’80 per cento ha un’istruzione medio-alta: il 36 per cento ha frequentato la scuola superiore e il 40 l’università. Vengono da 80 Paesi, principalmente Marocco, Romania, Senegal, Albania, Perù. Sono in buona parte gli immigrati presenti in media da 15 anni nel nostro territorio a dedicarsi al volontariato. Quattro su dieci hanno acquisito la nazionalità italiana e cinque su cento sono nati in Italia. Buona parte lavora: il 32 per cento a tempo pieno e il 19 part time. La maggior parte, il 51 per cento, vive in famiglia: «Si tratta di persone stabilizzate e integrate nel nostro territorio – commenta Ambrosini –, tant’è vero che molti approdano al volontariato grazie ad amici italiani o perché chiamati dalle associazioni. Ciò significa che il loro livello di relazioni è molto ampio».
Il 55 per cento è impegnato nel volontariato in modo continuativo in media da 6 anni, il 28,6 per cento aderisce in modo saltuario, il 17 per cento l’ha fatto in passato.
Stupiscono anche gli ambiti del volontariato scelti: «Avrei creduto di trovare volontari immigrati soprattutto nel settore dei servizi alle persone – afferma Ambrosini –, invece tra i settori preferiti ci sono attività culturali (17,5 per cento) come promozione del patrimonio, di usi, costumi, tradizioni e ci sono anche organizzazione di mostre e visite guidate». Certo, i servizi di assistenza sociale vanno di pari passo (17,8 per cento), con sportelli per accoglienza e ascolto, mense sociali, pacchi alimentari, medicinali. Tuttavia, più o meno allo stesso livello ci sono altre due attività: quelle educative (17,2 per cento), doposcuola e sostegno scolastico in primis, e quelle ricreative di socializzazione (16,4 per cento), cioè feste, eventi, spettacoli, sagre. «Se c’è da fare un bilancio, il volontariato immigrato ha più una funzione culturale, educativa e socializzante che assistenziale» commenta Ambrosini.
Cittadini a pieno titolo
Nemmeno le motivazioni che animano i «volontari insoliti» sono, ancora una volta, così scontate. Due le più forti: «Avevo bisogno di sentirmi utile e dare un contributo a una giusta causa» (22,6 per cento) e m’impegno nel volontariato «perché penso sia doveroso fare qualcosa per gli altri» (20,6). La motivazione in apparenza più scontata, cioè scegliere il volontariato «per senso di restituzione e gratitudine», è solo al sesto posto, con l’8,3 per cento delle preferenze. Afferma, per esempio, Ana Maria: «La mia principale motivazione è che il volontariato fa parte del mio modo di essere». E Ambrosini conferma che il bisogno primario dietro la scelta del volontariato è «quello di essere parte integrante della società. Anzi, di più: essere cittadini meritevoli. Per molti aspetti i volontari inattesi somigliano ai volontari autoctoni».
Come spesso succede, quando si dona anche si riceve. Il volontariato diventa per molti occasione di nuovi contatti, dà la possibilità di sentirsi parte di un gruppo di cui si condividono i valori, diventa palestra per mettere alla prova le proprie capacità ma anche per rispolverare saperi inutilizzati. Offre, inoltre, la possibilità di apprendere nuove competenze (organizzative, comunicative, relazionali), utili per un lavoro futuro, aiutando al contempo a perfezionare la lingua italiana. Un arricchimento, insomma, anche sul piano relazionale, professionale e identitario. Per molti è anche occasione per venire a conoscenza di questa forma di attivismo sociale e per esportarlo nelle terre di origine: «In Guinea Equatoriale – racconta Ana Maria – non esiste il volontariato come lo intendete voi; per me è stata una scoperta. Ho quindi cercato di riprodurlo nel mio Paese, creando una Ong per aiutare i bambini. E così oggi ho una doppia soddisfazione, che quasi mi commuove: quella di essere riconosciuta in Italia, dopo più di 20 anni di impegno, per quello che faccio e quella di aver esportato il volontariato nel mio Paese d’origine».
Esistono, però, delle criticità. Anche se la maggior parte dei volontari immigrati si trova a proprio agio all’interno delle associazioni, l’11 per cento dei casi lamenta problemi di discriminazione e un altro 11 per cento rileva una chiusura rispetto a chi è diverso. «Sono rilievi che non mi stupiscono – commenta Ambrosini –: i volontari italiani fanno parte di una società, è normale che filtrino in qualche caso pregiudizi e chiusure». Gli stereotipi, insomma, sono duri a morire, e non solo tra gli italiani. Ne è convinta anche Ana Maria che, per dimostrarlo, racconta un aneddoto: «Un giorno mi hanno chiamata al pronto soccorso psichiatrico perché c’era una signora di un Paese dell’Est che aveva avuto un crollo psichico. Quando mi ha vista, si è chiusa in se stessa perché reputava che io non potessi aiutarla. E dire che la psichiatra era russa, io venivo dall’Africa, ma lei, straniera a sua volta, era la prima a non credere in noi. Dopo le prime difficoltà si è costruito un rapporto solido, perché sono riuscita a starle molto vicina. Ma mi sono resa conto che è davvero difficile abbattere lo stereotipo dell’immigrato bisognoso, e capire che anche noi siamo in grado di aiutare».
Il consuntivo finale, però, è più che positivo: «Il volontariato si conferma una modalità fondamentale di partecipazione civica – conclude Ambrosini –, che rende la società più coesa, democratica, capace di prendersi cura dei più fragili. Ha oggi più che mai un ruolo profetico, perché è un grande laboratorio sociale, dove si sperimenta la società del futuro».
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