«Faccio scuola perché». L’attualità di don Milani

A 50 anni da «Lettera a una professoressa» e dalla sua dipartita, resta intatto il fascino della figura del priore di Barbiana e della sua scuola per gli ultimi. Anche papa Francesco gli rende omaggio.
19 Giugno 2017 | di

Chi conosce Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti? Con questo nome, messo giù per esteso, probabile che in pochi riconoscano quello che per tutti è semplicemente «don Milani», il prete fiorentino di cui ricorrono nel 2017 due cinquantenari: uscì nel maggio 1967 la sua opera più famosa – Lettera a una professoressa, scritta insieme con otto suoi studenti –, un mese prima che la morte lo cogliesse, il 26 giugno.

La domanda iniziale – chi lo conosce? – è pertinente, perché i 44 anni di vita di questo grande educatore che da Barbiana, ultima frazione del Mugello, seppe ritagliarsi uno spazio così importante nella cultura italiana, restano per molti tratti un mistero. Non che si sia scritto poco sul suo conto, anzi, è vero il contrario. Anche troppo, e spesso a sproposito. Per dirlo con lo splendido titolo di Adele Corradi, l’unica «professoressa» laureata benaccetta a Barbiana, Non so se don Lorenzo apprezzerebbe quanto è stato fatto, detto e teorizzato ricollegandolo a lui.

Lo scorso aprile, papa Francesco nel ricordarne la figura – è la prima volta per un Pontefice – ha affermato che «tutti abbiamo letto le tante opere di questo sacerdote toscano», il che significa che quantomeno fanno parte del suo bagaglio personale, che cioè gli scritti del priore sono stati meditati e apprezzati da Bergoglio, tanto da fargli decidere di mettere in agenda una visita a Barbiana, il 20 giugno prossimo.

Se il Papa è un lettore di don Milani, tuttavia, non altrettanto si può dire in generale. Rileva Andrea Schiavon: «Il paradosso è che ormai ci sono più spazi dedicati a lui che ragazzi con un suo libro in mano. Così non va: don Milani non è una reliquia da esporre, ma un maestro da leggere e discutere. Va tirato giù dal piedistallo, portato tra i banchi, per vedere l’effetto che fa a chi, oggi, prende in mano per la prima volta Lettera a una professoressa». È quanto ha provato a fare Schiavon, come racconta nel suo fresco e coraggioso Don Milani. Parole per timidi e disobbedienti. Del resto, Lettera a una professoressa non lascia indifferenti nemmeno oggi. Ben vengano anche le polemiche, mai sopite, rilanciate in particolare da Lorenzo Tomasin (Io sto con la professoressa sul domenicale de «Il Sole 24 Ore») e da Paola Mastrocola, cui ha risposto con garbo Franco Lorenzoni il 5 marzo scorso: «Si può dissentire da alcune rigidità e integralismi presenti in don Milani, ma il peggior tradimento sarebbe fare di lui un santino, approvato da tutti a parole con grande ipocrisia. L’unica accusa che proprio non si può fare è attribuirgli una surreale postuma paternità di una scuola facile e permissiva, che non boccia e non si cura dell’istruzione dei ragazzi».

 

Per poter fare scuola bisogna essere

Già, la scuola. Una profonda vocazione nella vocazione per il priore di Barbiana, che in un incontro con i direttori didattici di Firenze nel 1962 (organizzato dalla giunta La Pira), in tutta semplicità spiegò: «Faccio scuola perché voglio bene a questi ragazzi», frase che ha dato il titolo al convegno organizzato a Milano a inizio maggio dagli uffici Cei per la pastorale della scuola e per l’insegnamento della religione cattolica.

«Essere» è questione fondante in don Milani. Anche a scuola, come scriveva il sacerdote fiorentino in Esperienze pastorali: «Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola. (…) Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola».

Altri ancora sarebbero i punti che rendono attuale don Milani, inesauribili in poche righe. Almeno un altro aspetto, però, merita di trovare spazio: l’amore per la parola, da custodire e da trasmettere. Nell’incontro con i direttori didattici di Firenze sopra citato, don Lorenzo diede la chiave del suo impegno e delle sue priorità: «Dal punto di vista proprio di parroco, ho l’incarico di predicare il Vangelo. (…) Bisogna predicarlo in italiano. Resta da dimostrare che i miei parrocchiani intendano l’italiano. Questa è quella cosa che io nego. (…) Considerandomi un missionario in un paese straniero di cui non conosco la lingua, io avevo ancora la possibilità di studiare la loro lingua e parlare il loro linguaggio, ma (…) non si può parlare la loro lingua perché è una lingua di basso interesse, di bassi vocaboli. Non bassi in senso cattivo, ma non elevati. Ed io non mi ci abbasso a livello dei miei parrocchiani. Abbassarsi al loro linguaggio e non dire più cose alte, a me non va. Io seguito il mio linguaggio alto e quindi o loro vengono al mio linguaggio o non ci si parla. Ecco perché io ho iniziato il mio apostolato dalla scuola, con l’insegnare la grammatica italiana. Alla fine è successa questa disgrazia d’innamorarmi di loro ed ora mi sta a cuore tutto quello che sta a cuore a loro».

L’ha ben compreso papa Francesco, che ricordando don Milani unisce facilmente «parola» a «Parola»: «Apprendere, conoscere, sapere, parlare con franchezza per difendere i propri diritti erano verbi che don Lorenzo coniugava quotidianamente a partire dalla lettura della Parola di Dio». Un mandato per tutti gli appassionati di Gesù e dell’uomo, dentro e fuori la scuola.

 

L’articolo completo, con un resoconto del convegno Cei  «Faccio scuola perché voglio bene a questi ragazzi», è pubblicato nel numero di giugno del «Messaggero di sant’Antonio» e nella versione digitale.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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