La schiavitù non è morta

Dai venditori ambulanti ai fattorini immigrati che lavorano dodici ore al giorno senza contratto né garanzie, i nuovi schiavi sono dappertutto. La storia del giovane migrante maliano ucciso a fucilate in Calabria ne è la prova.
06 Luglio 2018 | di

Soumaila Sacko, il giovane del Mali ucciso barbaramente in Calabria, perché sottraeva alcune vecchie lamiere da un deposito abbandonato, ha aperto il sipario su una tragedia della modernità che ci ostiniamo a non vedere. Lo schiavismo non è morto. È schiavismo lavorare a due/tre euro l’ora, anche per dodici ore al giorno, sotto l’arbitrio incontrastato di un «caporale» che assume valutando la forza fisica e la capacità di resistenza. È schiavismo non avere un contratto e non poter contare su un’autorità che controlli. Ed è schiavismo dormire in tuguri di lamiera, in assenza di ogni elementare regola igienica, senza la possibilità di pensare al futuro. Questo è il modo in cui vivono e lavorano decine di migliaia di uomini e di donne che hanno tentato di scappare a un destino di fame nel loro Paese e sono approdati in Italia. Quelli che Soumaila Sacko cercava di difendere nelle campagne della Calabria e che affollano d’estate le terre del Mezzogiorno.

Noi, il moderno schiavismo ci ostiniamo a non vederlo. Non è oggetto di dibattito pubblico, non è presente nelle proposte e nei progetti di cambiamento dei politici e sui giornali (a parte poche eccezioni); emerge solo in qualche drammatico ma apparentemente isolato fatto di cronaca. Invece vive e prolifera proprio tra di noi, in qualche caso a pochi chilometri dalle nostre case o dai luoghi di vacanza. I nuovi schiavi sono dappertutto, non sono solo i compagni di sofferenza e di sfruttamento di Soumaila Sacko. Vivono nei centri e nelle periferie delle metropoli e dei piccoli paesi e in ogni continente. Non un retaggio del passato ma un ingranaggio importante del presente. Quella giovane ragazza che in una strada seminascosta aspetta i clienti fa parte della nuova schiavitù, come ne fanno parte coloro che confezionano i pacchi di merce che ordiniamo con un clic del nostro computer, i lavavetri che si affannano ai semafori, la donna dai vestiti colorati che vende collanine sulle spiagge, il giovane ragazzo che corre a consegnarci la pizza, anche lui senza contratto, senza salario minimo, senza garanzie.

Sono trenta milioni gli schiavi del pianeta secondo alcune statistiche, diventano sessanta secondo altre. Poi i numeri aumentano e si espandono. Dipendono da dove e come volgiamo gli occhi, da chi decidiamo di contare: ci sono gli schiavi del lavoro e del sesso, del traffico di droga e degli organi, dei servizi a basso costo, ci sono schiavitù accettate dalla società e dall’economia e altre condannate ma non per questo meno diffuse. Prendere atto che la schiavitù non è finita con l’Ottocento, sarebbe un atto d’importante consapevolezza, la prima condizione per combatterla. La morte di un ragazzo del Mali che, con pochi mezzi e con tanti ostacoli, ha provato a farlo, dovrebbe almeno farci aprire gli occhi su quello che finora abbiamo guardato con colpevole disattenzione. Dovrebbe richiamare la responsabilità della politica come quella degli organi d’informazione e indurre almeno a «nominare» una piaga insopportabile.

Data di aggiornamento: 06 Luglio 2018
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