Svetlana Aleksievič, pioniera con la penna

Ha parlato di comunismo, del conflitto in Afghanistan e del disastro di Chernobyl partendo sempre dai protagonisti. A tu per tu con la scrittrice bielorussa premio Nobel per la letteratura nel 2015.
20 Settembre 2017 | di

Ho incontrato Svetlana Aleksievič a Torino in una sorta di anticipazione dell’ultimo Salone del Libro, a fine aprile, su sollecitazione del nuovo direttore Nicola Lagioia, che mi aveva invitato a presentarla sapendo che la conoscevo da molto tempo e che avevo scritto più di una volta del suo lavoro. Ho scoperto Svetlana quando uscì il suo primo libro in italiano, edito da E/o e, con l’aiuto del suo traduttore e amico Sergio Rapetti e di una sua estimatrice che era entrata presto in contatto con lei, Maria Nadotti, portammo Svetlana in qualche festival (allora rari) o la presentammo in qualche libreria. Svetlana, infatti, abitava allora, non potendo rientrare in patria dove il dittatore Lukashenko l’aveva comprensibilmente in odio, per parte dell’anno a Berlino e per l’altra parte in Italia, a Pontedera, usufruendo di una residenza amicale. (A Pontedera risiedeva allora, e lì è morto, un grandissimo uomo di teatro polacco, Jerzy Grotowski).

Lavorando inoltre con altri amici per delle riviste indipendenti, ho avuto la fortuna di poter pubblicare più volte testi di Svetlana o sue dichiarazioni e interviste, e non mi sono certo stupito quando le è stato assegnato, quasi due anni fa, il Nobel per la letteratura, perché Svetlana è una delle pioniere più attive e più teoricamente coscienti e coerenti di un nuovo modo di intendere la letteratura: scrivere sì, ma a partire da interviste, storie di vita, testimonianze raccolte dalla viva voce dei protagonisti. Sono questi i libri di cui si ha oggi più bisogno, è il confine tra inchiesta e giornalismo ed elaborazione letteraria ad appassionarci più della mera invenzione, di solito ripetitiva e falsa, e del gioco letterario per quanto alto.

I libri di Svetlana sono dei capolavori letterari, ma allo stesso tempo dei documenti corali e tremendi della violenza e assurdità del mondo in cui oggi viviamo. Svetlana ha raccontato la Seconda guerra mondiale per il tramite delle donne e di chi era allora bambino, ha raccontato l’Afghanistan ascoltando i ragazzi spediti allo sbaraglio dalle nuove oligarchie post-staliniste, ha raccontato il disastro di Chernobyl attraverso le storie dei sopravvissuti, ha raccontato la società comunista attraverso i ricordi di chi vi è vissuto e ha creduto nei suoi ideali. Con Svetlana si è parlato delle sue esperienze, del suo modo di lavorare, delle sue idee sul mondo. Di questa lunga conversazione, diamo qui alcune parti, quelle che ci sono sembrate più interessanti per i nostri lettori.

Le origini e la guerra

«Sono cresciuta in un villaggio dove ho trascorso la giovinezza, perciò il mio approccio è stato diverso da quello di altri scrittori. I miei genitori erano insegnanti di campagna, e così ho potuto usufruire dei due tipi di insegnamento, quello abitualmente intellettuale e quello del mondo contadino. Il nostro era il tipico villaggio del dopoguerra, dunque vi si trovavano pochi uomini, perché durante la guerra un uomo su quattro era morto. C’erano quasi soltanto donne, ed è ascoltando le conversazioni di queste donne, che ho imparato molto di più che sui libri di cui era piena la nostra casa. Si trattava soprattutto di donne giovani, di giovani vedove. I loro racconti mi hanno profondamente colpito, al punto da ancorarsi nel mio animo. Capii il valore di queste donne, che parlavano sì della guerra ma come se parlassero di amore, perché raccontavano il primo incontro con i loro mariti oppure l’ultima notte che avevano vissuto con loro prima della partenza per la guerra. Attraverso questi dialoghi ho intuito molto dell’animo femminile. Erano racconti di guerra tremendi, ma anche molto intimi e segreti.

Nei miei quarant’anni da scrittrice, ho composto in cinque libri la storia di quello che io chiamo l’uomo rosso”. Vicende terribili, piene di tutti gli orrori che la guerra porta con sé. Scrivendo questi libri ho capito che, quando si parla della guerra, è necessario un certo tipo di informazione: bisogna riuscire a trasmettere la sofferenza. Un’altra cosa fondamentale della mia vita è stato il rapporto con mia nonna, che era ucraina. Mi raccontava cose atroci della guerra, ma, “da nonna”, non imprecava contro la sorte né si alterava, anche se la maggior parte della sua famiglia vi aveva perso la vita. Al contrario, mi trasmetteva una forma di speranza. Per lo stesso motivo ho molto amato Dostoevskij, il mio autore preferito, proprio perché meglio di altri ha scritto dell’uomo come di un essere terribile ma dall’animo profondo, capace cioè di tendere verso la bellezza».

Dalla parte dei testimoni

«Quando si scrive, occorre capire che cosa sia effettivamente il cosiddetto “documento”. È come un essere vivo che si sviluppa assieme a noi. Ma uno stesso evento può essere raccontato dai testimoni in modi molto diversi. Perciò, quando si scrive, non si ha a che fare con il documento in sé, ma con le sue varie versioni. Il mio punto di vista in quanto scrittrice è questo: mi trovo di fronte a una persona che comincia a raccontarmi della guerra. Se mi recassi da questa persona subito dopo il conflitto, mi darebbe una certa versione dei fatti. Ad esempio, quando sono andata a intervistare i soldati russi impegnati in Afghanistan, il loro racconto è stato profondo e sofferto: la realtà che hanno vissuto quei ragazzi li ha sconvolti nell’intimo. Se invece incontrassi lo stesso testimone quarant’anni dopo la guerra, il suo racconto sarebbe alterato, perché lo ricostruirebbe a suo piacimento. Comincerebbe cioè ad arricchirlo di quanto ha letto e visto, di quanta felicità avrà provato nel frattempo. L’uomo tende a creare il racconto e a non ripeterlo mai allo stesso modo. Dunque, se avessi incontrato una persona dopo diverso tempo dal conflitto, avrei dovuto espungere dal suo racconto tutta la banalità che il sistema totalitario sovietico aveva generato.

Il mio compito era liberare le persone che avevo davanti dal peso del racconto, aiutarle a tornare alla verità. I mass-media invischiano di banalità il nostro sistema di comunicazione. Occorreva liberare le persone dalla stretta dello Stato e far capire che esiste un’altra forma di libertà, quella di essere se stessi. Questo è uno dei motivi per cui impiego molto tempo a scrivere un libro, a volte fino a dieci anni. Penso che tutti abbiano un segreto, che forse ricordano solo intimamente senza neanche capirlo del tutto. Non è affatto semplice tirar fuori queste cose dagli uomini, ma per me è quasi una scommessa. Per alcuni si è tradotto in mezza pagina di scrittura, per altri invece ne sono servite cinque; per altri ancora sono tornata più volte sulla vicenda, perché, man mano che si ricordavano del passato, accumulavano materiale che avevo bisogno di tempo per gestire. Erano mille pagine di storie e da queste mille pagine dovevo riuscire a comporre la struttura del romanzo.

L’articolo completo è disponibile nel numero di settembre del «Messaggero di sant’Antonio» e nella versione digitale della rivista.

 

Data di aggiornamento: 20 Settembre 2017
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