Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?
Non se lo domandava uno qualsiasi, ma niente di meno che san Paolo (Rm 8,31). Ma con lui moltissimi altri: soldati mandati al macello dopo essere stati rassicurati che siccome Dio lo vuole, tutto quadra e il conto torna; missionari che pur brandendo la croce, la mezzaluna o sussurrando un mantra sono finiti ammazzati.
È probabile che anche a noi sia successo, una volta o l’altra, di aver presunto un buon risultato a qualche nostra faccenda, e solo perché «siamo credenti», andiamo a messa o qualcosa del genere. E che la risposta alla nostra domanda iniziale non sia assolutamente scontata, viste carneficine e insuccessi personali, è dimostrato da come la stessa sia stata riformulata: ma se Dio è con noi, allora chi c’è con gli altri?! Voglio dire, lo stesso Dio può contemporaneamente essere da una parte e dall’altra della barricata, da una parte e dall’altra dello stesso campo di gioco? Essere ugualmente invocato da un esercito e anche da quello nemico? Schierarsi coi vincenti e, allo stesso tempo, coi perdenti? Quasi che pregarlo significhi allora «comprarlo», convincerlo a stare con noi contro gli altri. Quegl’altri che stanno esattamente formulando la stessa nostra preghiera. Quando poi da quella che è tutto sommato ancora un’affermazione interlocutoria e dubbiosa, marcata infatti dal punto di domanda, si passa al punto esclamativo, allora io comincio a sentire puzza di bruciato. Nel senso di puzza di diavolo…
«Dio è con noi!», infatti, rischia di esprimere una sicurezza diabolica, un’alterigia e una presunzione che è a servizio solo del proprio egoismo. Scandirlo, stamparlo sulle proprie bandiere o, come fece l’esercito nazista, inciderlo persino sulla fibbia delle cinture dei soldati (Gott mit Uns; a dire il vero il motto, in cirillico, fu utilizzato anche nell’Impero russo), è più un urlo selvaggio di guerra che non un atto di fede. In questo non molto diverso dal grido di battaglia dei crociati, Deus vult!, Dio lo vuole, ma anche dall’Allahu akbar, Dio è più grande, del sedicente terrorista musulmano che si fa saltare in aria in mezzo alla gente. In tutti i casi si «usa» Dio piegandolo ai propri scopi e metodi che con lui non hanno nulla a che fare. Addirittura bestemmiandolo, nel volerlo decisamente schierato con noi, e naturalmente contro gli altri. E non è certo Dio ad autorizzarci a ciò (tocca anche dire, almeno tra parentesi, che la riedizione laica di questa presunzione ideologica è data dall’«esportazione della democrazia» e dalle «guerre giuste»; papa Francesco ha avuto da ridire su questo anche al Regina coeli dell’8 aprile).
Dio che, appunto, è «più grande» di ogni nostra definizione di lui, di ogni concetto che su di lui possiamo provare a balbettare e di ogni espressione teologica, pur esatta, ma in cui tentiamo di rinchiuderlo definitivamente. Dio che appare ad Abramo, alle querce di Mamre (Gen 18; un brano comune a ebrei, cristiani e musulmani!), lasciando indefinita e inafferrabile la sua identità, semmai trovando più interessante raccontare di sé come colui che è pellegrino e bussa alla porta di ogni uomo, che è in ogni uomo che bussa alla nostra porta.
Dio non è con me più di quanto non lo sia con chiunque altro. Perché chi ce l’ha, non ce l’ha in esclusiva né a propria unica disposizione. Diceva un saggio giapponese, Bai Juyi: «I punti panoramici non hanno mai avuto padroni. La montagna appartiene a chi ama la montagna». Così Dio: non è di uno più di un altro, è di chiunque si lasci amare da lui e provi a permettergli di amare gli altri attraverso di sé. Diffidiamo, perciò, di noi e degli altri, quando presumiamo che Dio sia troppo con noi. Offriamogli un pensiero più spazioso in cui stare…
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