L’arte dell’ospitalità, a scuola e non solo
Pensare prima di agire. E prima di aprire la bocca, di scegliere, di lavorare, di incontrare – e accogliere – «l’altro»…
L’avvio di «Tra l’altro. Crescere nella diversità», quarto convegno interdisciplinare promosso e organizzato da Messaggero di sant’Antonio e Ufficio di Pastorale dell’Educazione e della Scuola della Diocesi di Padova non poteva essere più chiaro e unanime. La due giorni (7 e 8 settembre) pre inizio scuola all’Opera della provvidenza sant’Antonio (Opsa) di Sarmeola di Rubano (PD) ha confermato per il quarto anno consecutivo l’altissimo afflusso di presenze che l’ha caratterizzata fin dal suo esordio, e che ha visto nell’edizione 2018 l’adesione di oltre 900 educatori e docenti di ogni ordine e grado.
“Dire” la diversità: una riflessione sulle parole
Del resto, non è in discussione l’attualità del tema, per una scuola che rappresenta il primo «banco di prova» per una società dal volto di anno in anno sempre più multiculturale e multietnica (secondo i dati MIUR di luglio 2017 riferiti all’anno scolstico 2015/2016, gli alunni stranieri nel sistema scolastico italiano rappresentano il 9,2 per cento). Ma l’ambito de «l’altro», dello «straniero», è ben più ampio. Nella categoria escludente del «diverso» rischiamo di finirci tutti, l’uno per l’altro. E allora… aboliamo la «parolaccia» diversità, propone Salvatore Soresi, professore di psicologia all’Università di Padova, nel suo intervento dedicato al vocabolario che utilizziamo per affrontare il tema.
«La parola diversità è una delle più brutte parole di questo panorama – ha sostenuto il docente –. “Diverso” è un’etichetta applicata da fuori, da chi osserva. È un costrutto nella mente di chi non ha ancora capito la differenza tra osservare e valutare. Il valutatore applica la categoria della “diversità” attraverso operazioni di confronto, di distanza rispetto alla prestazione media, è un classificatore di differenze, è un’operazione manipolatoria funzionale al mio obiettivo…». Non è mai neutrale l’uso delle parole. Perché creano un mondo, ha sostenuto Soresi citando Ludwig Wittgenstein: «Le parole costituiscono l’impalcatura su cui costruire il nostro mondo».
Alcuni esiti di ricerche condotte dal team del docente confermano in negativo e in positivo queste tesi. Quando i quotidiani nazionali e locali si occupano di temi collegabili alla disabilità, abbondano parole che stigmatizzano, enfatizzando e di fatto promuovendo la distanza tra persone. «Ci sono invece tante belle parole che negli articoli non trovo, o trovo solo molto di rado, come contesto, complessità, altruismo, condivisione, speranza, coraggio, indipendenza, narrazione, progresso, simpatia, unicità».
La conferma in positivo viene dall’analisi delle schede degli studenti compilate dagli insegnanti per i loro «successori», una prassi che riguarda i passaggi dalla scuola dell’infanzia alla primaria, alla primaria di secondo grado, alle superiori. «Fate attenzione, insegnanti – ha ammonito lo psicologo –. L’aspettativa degli operatori scolastici sembra essere influenzata da come sono descritti gli studenti. Il vostro studente sarà accolto nella nuova scuola sulla base di come la vostra presentazione stimolerà i colleghi. Le parole sono importanti!».
Meno invece lo sono le sigle (Bes, Adhd e via dicendo), che rischiano di diventare un ostacolo all’inserimento e all’inclusione, come denuncia il movimento internazionale di opposizione all’etichettatura psichiatrica CCHRINT. In sala, calorosi applausi ha ottenuto il fortunato video Childhood is Not a Mental Disorder (l'infanzia non è un distubo mentale).
L’arte dell’ospitalità, per un approccio biblico
Ad aprire Tra l’altro. Crescere nella diversità è stato l’efficace intervento di Marco Dal Corso, docente all’Istituto di Studi Ecumenici San Bernardino di Venezia, che a proposito de L’arte dell’ospitalità ha offerto agli oltre 900 professionisti 10 punti sui quali riflettere: 4 ragioni teoriche, i «perché» dell’ospitalità, e 6 ragioni pratiche, i «come».
I perché sono per lo più dei dati di fatto: viviamo un mondo nuovo (punto 1), cosmopolita e globalizzato, nel quale bisogna ripensarsi. Dobbiamo praticare l’ospitalità perché viviamo un momento di svolta (punto 2), e perché (punto 3) continuare a pensare così (in maniera esclusivista) reca danno. L’urgenza civile, politica e umanitaria in atto (punto 4) è sotto gli occhi di tutti.
Da tutto ciò, «Quale appello alla religione, alla teologia?» si è chiesto Marco Dal Corso. «Anche le religioni devono superare alcune forme storiche del passato. Nella storia di fatto la teologia ha ripensato molti temi e problemi: la schiavitù, la parità di genere, il rapporto con la scienza... Anche ora serve un nuovo paradigma, ed è il modello ospitale. Dobbiamo riconoscere che anche la religione, anche la nostra, è parte del problema. Certo, ciò richiede umiltà e disponibilità all’auto verifica, ma solo la consapevolezza di essere parte del problema può costruire l’essere anche parte della soluzione. Per favorire la vita sociale occorre una nuova auto comprensione delle religioni. Perché quella attuale è un ostacolo alla convivenza, come si è visto nel conflitto dell’ex Jugoslavia e nei suoi esiti».
I «come fare» sono conseguenti. «Senza farsi prendere dall’ansia di arrivare subito a un’etica o a una prassi – precisa Dal Corso –. Non c’è niente di più pratico che una buona teoria». «Buona teoria» è, secondo l’esperto, «superare il pensiero greco identitario e assumere quello biblico dell’alterità. Mutuando quanto proposto da George Steiner a proposito degli ebrei: “Non si sopravvive, se non si impara a essere ospiti. Siamo ospiti della vita, senza sapere perché siamo nati. Siamo ospiti del pianeta, al quale facciamo cose orribili. E essere ospiti richiede di dare il meglio dovunque si è, pur rimanendo pronti a muoversi per ricominciare, se è necessario. Credo che vivere l' ospitalità in maniera esemplare sia la missione, la funzione, il privilegio e l' arte degli ebrei”».
Secondo passaggio è promuovere l’ospitalità come paradigma del dialogo interreligioso, facendo il passaggio di non vedere più lo straniero come hostis, nemico, ma come hospes, ospite. Terzo punto: rivisitare i trattati teologici e le nostre immagini di Dio, demolendo gli idoli. Un’azione fondamentale, ma di scarsa efficacia se l’ospitalità non diventerà (ed è il quarto punto) un percorso pubblico. Quinto. Serve un pensiero che trasformi le chiese in ospedali da campo, valorizzando (ed è la conclusione) le pratiche dal basso, che non mancano.