La notte del Libano
A tarda sera chiamo M. a Beirut. Ha 54 anni e ricorda gli antichi e perduti odori della città: «I gelsomini e gli aranci». Le sono rimasti nella memoria di bambina. M. aveva otto anni quando scoppiò l’oscena guerra civile che, dal 1975, dilaniò il Libano per quindici anni. Da allora il profumo della sua città è cambiato. C’era una eredità di rovine, ferite, follie, sangue, macerie, massacri, centoventimila morti, e nuovi, aggrovigliati equilibri politico-religiosi. Nacque di nuovo un potere economico feudale, clanico, familiare, sfacciato e corrotto.
In Libano sono riconosciute diciotto confessioni religiose, dodici cristiane, cinque musulmane. Vi è una sparuta minoranza: un centinaio di ebrei che non hanno mai lasciato il Paese. Nessuno, dal 1932, ha azzardato più un censimento. Meglio non scoperchiare il vaso di Pandora del Libano, meglio non alterare la spartizione del potere.
«Sono esausta», dice M. al telefono. Conosco l’amore che prova per il suo Paese, ma devo credere a quanto mi dice: «Non c’è speranza per questo paese». I ragazzi di Beirut, mi dice un’altra amica, sognano solo un visto per andarsene. In Europa, in Canada. Ovunque. Diciassette milioni di libanesi vivono già lontano dal Medioriente. Ed erano lontani il 4 agosto quando duemila e settecentocinquanta tonnellate di nitrato di ammonio, stoccate da sette anni nel porto, hanno polverizzato (Incidente? Negligenza folle? Innesco terroristico?) il centro della città, ucciso oltre duecento persone e lasciato senza casa altre trecentomila. Nessun quartiere della città è uscito indenne dall’esplosione. Devastati Mar Mikhael, Bourj Hammoud, Karantina, Gemmayze.
Le guerre libanesi non sono riuscite a costringere M. ad andarsene dal suo Paese. Se ne andrà dopo questo terremoto? Il Libano, da mesi, prima dell’esplosione, era in rivolta. Forse per la prima volta, i giovani di Beirut avevano davvero sfidato gli invincibili e oscuri poteri confessionali ed economici. Hanno tentato, stanno tentando più che mai, la thaoura, la «rivoluzione». É arrivata la pandemia del Covid a fermarli. É arrivata l’esplosione del porto a riaccendere la protesta. E la disperazione.
La lira libanese ha perso l’80 per cento del suo valore verso il dollaro, il Libano non produce niente: importa quasi tutto il cibo che consuma, i silos del grano sono andati distrutti. Il Libano avrà fame, ha già fame. Non c’è pane. Metà della popolazione è sotto la linea di povertà. I ragazzi, dopo l’esplosione, sono tornati nelle piazze. Di giorno, aiutavano chi aveva perso la casa, hanno ripulito le vie coperte di vetri e detriti, hanno soccorso chi era in difficoltà. A sera, impugnavano le stesse scope e le sbattevano contro i muri e i metalli per protestare: «Ya nahana, ya antu». «O noi, o voi», hanno gridato al potere.
Un anno fa, in agosto, ero a Beirut. Cercavo, per il «Messaggero di sant’Antonio», le tracce della devozione antoniana, fortissima nel Paese. Questa volta, Antonio non ha ascoltato la mia preghiera, non ha ascoltato la preghiera di molti per il Libano. Ho chiamato anche un frate, le vetrate della chiesa dedicata al Santo di Padova sono andate in frantumi. Come quelle di tutte le case di mezza Beirut. Il frate mi ha detto: «Il Libano risorgerà». Devo richiamare M., passarle una possibile speranza.