La fotografia del cuore
Turmi, Etiopia 2000. Aveva smesso di piovere da poco. Ero alla ricerca di un luogo erboso e non allagato dove montare la tenda e passare la notte. Camminavo tra gli arbusti del bush con lo zaino sulle spalle e la borsa fotografica a tracolla. Come ogni volta in queste occasioni, ero accompagnato da uno stuolo di ragazzini incuriositi e vociferanti. La gente di etnia hamer che abita questo angolo di Africa è molto ospitale. A volte troppo, per noi uomini dalla pelle bianca.
Procedevo a testa bassa, avvolto nella stanchezza di una giornata passata a traballare sulla tòle ondulée delle piste africane, il cielo era grigio e la luce, fotograficamente parlando, piatta. Davanti a me due bambini del villaggio vicino mi accompagnavano facendomi da guida. Si tenevano per mano, spesso si voltavano e sorridevano esclamando qualche parola nel loro dialetto. Entrambi avevano il volto dipinto, come molti altri ragazzini della loro etnia che vivono nei dintorni di Turmi. Mi piaceva questa decorazione facciale. Mentre camminavo pensavo alla fotografia che avrei potuto scattare. Passo dopo passo.
Non lasciai trascorrere molto tempo, i minuti erano preziosi. Tutto poteva finire da un momento all’altro. Aprii la borsa e mi misi la fotocamera al collo. Avevo un trentacinque millimetri montato sul corpo Nikon, e un rullino vergine tutto per me. Iniziai a osservare i loro movimenti, non volevo sciupare pellicola inutilmente. Il viaggio era ancora lungo. Quando i due bambini si accorsero che la mia attenzione era tutta per loro, iniziarono ad atteggiarsi ridendo e abbracciandosi, fino a formare un «cuore» tra i loro visi neri.
La «fotografia del cuore» nasce dalla semplicità di due bimbi sconosciuti. Incontrati per caso e mai più rivisti. L’immagine di quell’Africa, dove la terra che ci scivola tra le mani racconta la storia passata. Il Continente Nero dimenticato, che negli anni ho imparato a capire e ad amare.