Un vaccino da premio Nobel
La professoressa Maria Elena Bottazzi è nata a Genova, in Liguria, ma è cresciuta in Honduras, ed è orgogliosa della sua duplice identità. Oggi è professore di Pediatria, Virologia e Microbiologia Molecolare al Baylor College of Medicine di Houston, in Texas. È anche co-direttore, con il collega Peter Jay Hotez, del Texas Children’s Hospital Center for Vaccine Development, oltre a ricoprire posizioni di primo piano in numerose organizzazioni internazionali nell’ambito della microbiologia e della medicina tropicale. Proprio grazie alle sinergie tra il Texas Children’s Hospital e il Baylor College of Medicine, Bottazzi e Hotez hanno messo a punto una proteina, ingegnerizzata al Center for Vaccine Development, con la quale è stato creato un nuovo vaccino contro il SARS-CoV-2, co-sviluppato con Biological E. Ltd in India e denominato Corbevax, di cui, nel dicembre scorso, le autorità indiane hanno autorizzato la produzione e la distribuzione. Bottazzi e Hotez sono stati proposti per il premio Nobel per la pace.
La scienziata d’origine ligure vive negli Stati Uniti dal 1989. È al Baylor College dal 2011. Prima lavorava e insegnava alla George Washington University, a Washington DC. «Il nostro Centro di ricerca – precisa – è stato creato a Washington, e da dieci anni siamo anche qui al Baylor di Houston». Bottazzi non ha mai lavorato in Italia, ma segue da vicino gli studi dell’Università di Pisa «dove esiste un gruppo attivo nell’ambito della medicina tropicale, e le attività dell’Ospedale di Negrar (Verona) che ha un istituto specializzato in malattie infettive e tropicali». Bottazzi è anche membro della Simet, Società italiana di medicina tropicale, ed è legata alla comunità scientifica italiana.
Msa. Quando e come è nato il vostro vaccino?
Bottazzi. Noi lavoravamo da tempo sui vaccini contro i Coronavirus. Già dieci anni fa avevamo la struttura per realizzare questi protocolli, cioè lieviti che producono proteine ricombinanti per i vaccini. Appena abbiamo visto la sequenza del nuovo Coronavirus SARS-CoV-2, abbiamo messo a punto un protocollo per produrre il dominio di legame della proteina Spike del Coronavirus ricavandola, sintetizzata e purificata, dai nostri lieviti, e utilizzandola per indurre la risposta immunitaria dell’organismo umano. È un processo molto simile a quello della fermentazione della birra. Solo che noi ovviamente non produciamo alcol, ma proteine. E abbiamo tutti gli strumenti per garantirne la purezza, il rendimento della produzione, la funzionalità e la capacità di neutralizzare il Coronavirus. Quando abbiamo messo a punto questo protocollo con tutti i pezzi necessari per creare l’antagonista del virus, abbiamo cercato dei partner produttivi. La nostra intenzione è sempre stata quella di trasferire gratuitamente le nostre conoscenze. Abbiamo pubblicato tutto come open science.
Il vaccino come viene realizzato?
Un produttore di vaccini ha due opzioni: o legge le nostre pubblicazioni e ricava le proteine Spike autonomamente, oppure ci contatta e gli inviamo i nostri kit e i nostri processi di produzione per realizzare il vaccino. Corbevax è il nome del vaccino sviluppato con la nostra tecnologia proteica, e realizzato dalla società indiana Biological E. Limited partendo dal nostro know-how. In Indonesia, dove si sta replicando la stessa esperienza, avrà un altro nome, ma il protocollo biologico è il medesimo o sarà molto simile.
Quanti Paesi hanno avviato la produzione del vaccino basato sul vostro principio?
L’India, appunto, con Biological E., l’Indonesia con Biofarma, il Bangladesh con Incepta. In Africa stiamo lavorando con un consorzio (ImmunityBio) che sta costruendo le infrastrutture per realizzare il vaccino in Botswana e, possibilmente, in Sudafrica. Stiamo sviluppando analoghe iniziative anche in Vietnam e in altri Paesi dell’America latina, probabilmente in Argentina. Complessivamente le partnership avviate sono quattro. Ma stiamo interloquendo anche con altri soggetti.
Perché avete scelto di condividere gratuitamente la vostra scoperta?
L’idea fondamentale è che ogni Paese, partendo dal nostro protocollo, sviluppi e produca autonomamente un vaccino contro il Covid-19. Questo network di Paesi (Developing Countries Vaccine Manufacturing Network) raccoglie produttori locali che si aiutano tra loro, al contrario delle multinazionali dei Paesi ricchi. Sappiamo che dobbiamo sostenere questo principio di autosufficienza e di de-colonizzazione in ambito sanitario, rispetto alle grandi industrie del farmaco, in modo che i Paesi in via di sviluppo siano in grado di affrontare problemi locali con soluzioni specifiche.
Voi scienziati cosa ci guadagnate?
Nulla. E non c’è alcun brevetto sul nostro protocollo biologico. L’unica condizione che poniamo ai nostri partner locali è l’assunzione di responsabilità nella produzione e nella distribuzione del vaccino contro il Coronavirus, che non abbandonino l’impresa per strada, e che l’impiego «commerciale» della nostra proteina conduca davvero a garantire la copertura vaccinale a chi, altrimenti, non avrebbe modo di permettersela o di riceverla.
Il vostro protocollo è nato interamente al Baylor College of Medicine di Houston?
Noi collaboriamo anche con altre università. Per esempio con la Emory University abbiamo fatto uno studio sui primati per il test di funzionalità del vaccino. Collaboriamo con IDRI che è l’Infectious Disease Research Institute che ci ha aiutato con le formulazioni. E con altri. Il Baylor College funge da capofila. L’idea di partenza viene dal nostro team: una ventina di persone al Centro di sviluppo che ha lavorato al vaccino anti-Covid, ma abbiamo anche una Scuola di Medicina tropicale. In tutto siamo sessanta persone provenienti da Asia, India, America centrale, Belgio, Germania e altri Paesi. Io sono l’unica italiana d’origine.
Che tipo di riscontro ha avuto il vostro vaccino negli Stati Uniti?
La FDA (Food and Drug Administration), l’ente governativo che regolamenta il settore dei prodotti alimentari e farmaceutici negli Stati Uniti, e altre agenzie sono al corrente dei risultati delle nostre ricerche, della nostra tecnologia, e della nostra disponibilità a condividerla. Ma non c’è un sistema di approvazione negli Stati Uniti che permetta di importare il vaccino dall’India, che pure rimane uno dei principali produttori mondiali di farmaci. L’agenzia australiana omologa della FDA, piuttosto che quella inglese o l’Ema europea, in questo sono più flessibili. Non può nemmeno immaginare quante mail e messaggi abbiamo ricevuto da persone negli Stati Uniti, in Europa, e anche dall’Italia che ci hanno chiesto il nostro vaccino dicendo di avere paura degli altri. Ma al momento non abbiamo ancora partnership per svilupparlo in questi Paesi.
Negli Stati Uniti come ha reagito la comunità scientifica?
È stato tutto divulgato sulle pubblicazioni scientifiche. Il nostro lavoro sui Coronavirus è noto da anni. E in ambito pre-clinico possiamo dimostrare come sviluppiamo questi processi. Ci sono anche altri gruppi di ricerca che muovono dallo stesso nostro concetto. È pur vero che anche noi seguiamo filoni di ricerca sulle nuove tecnologie basate su «Rna messaggero», ma in certe situazioni bisogna scegliere la strada più facile, più utile, e con ricadute più efficaci.
Che differenza c’è, per esempio, tra il vaccino derivato dalla vostra proteina e quello di AstraZeneca?
Quello di AstraZeneca sfrutta un Adenovirus, cioè un vettore virale. E ha bisogno che il nostro corpo segua dei processi per modificare il vettore e arrivare, alla fine, a presentare proteine per sviluppare anticorpi specifici. Noi, invece, otteniamo già la proteina dai lieviti. Così il nostro corpo non deve occuparsi di questi processi. Lo studio fatto in India per ricevere l’approvazione all’utilizzo del nostro vaccino, era basato su un’indagine clinica che ha confrontato Covishield, cioè il vaccino di AstraZeneca, con il Corbevax derivato dalla nostra proteina. Lo studio ha dimostrato che il Corbevax è molto efficace nell’indurre la produzione di anticorpi neutralizzanti contro il Coronavirus. La nostra proteina induce maggiore immunità rispetto al vettore basato sull’Adenovirus.
Qual è stata la risposta immunitaria?
Biological E. ha effettuato uno studio clinico in fase 3, e ha trovato più dell’80 per cento dei soggetti testati nei quali il vaccino ha indotto la produzione di anticorpi neutralizzanti contro le varianti Beta e Delta del SARS-CoV-2. E più del 90 per cento contro il virus originale, cioè quello di Wuhan. Stiamo aspettando i risultati contro la variante Omicron. Gli effetti collaterali del vaccino Corbevax sono del 50 per cento più bassi rispetto a quelli del vaccino Covishield.
La disponibilità di dosi di vaccino da somministrare e la loro conservazione restano aspetti decisivi per un’efficace distribuzione nei Paesi in via di sviluppo.
Per quanto riguarda la conservazione del nostro vaccino, non c’è bisogno di alcuna «manipolazione» prima di essere inoculato. Basta la refrigerazione. Sostanzialmente è lo stesso concetto e sistema impiegato per il vaccino contro l’Epatite B. Per chi non ha mai ricevuto nessun vaccino contro il Coronavirus, la somministrazione del vaccino derivato dalla nostra proteina prevede due dosi, con un intervallo di 28 giorni tra la prima e la seconda dose. Potrebbe esserci la necessità di un ulteriore richiamo come per gli altri vaccini. Ma questo dipende dall’evoluzione e dalla durata della pandemia, oltre che dall’eventuale insorgere di ulteriori mutazioni del virus. Il nostro vaccino può essere utilizzato anche in un’unica dose, come booster o come quarta dose, per coloro che hanno ricevuto in precedenza altri tipi di vaccini contro il Coronavirus. Tenga conto che i nostri studi hanno confermato che, dopo sei mesi dalla somministrazione del ciclo vaccinale del Corbevax, la protezione è ancora molto alta.
Il Corbevax è già in distribuzione?
Sì. Biological E. ha ricevuto il nulla osta dalle autorità indiane il 28 dicembre scorso. L’India ha già acquistato 300 milioni di dosi, e sta iniziando a distribuirle.
Non temete il peso e l’influenza di Big Pharma?
Pensiamo di essere complementari. Ognuno ha il suo modello scientifico. Il nostro è semplice: punta a rendere autonomi i Paesi in via di sviluppo senza l’onere dei brevetti e degli accordi con le multinazionali. Biological E. in India lavora anche con le multinazionali farmaceutiche, ha una sua linea di sviluppo di vaccini a «Rna messaggero», come quelli di Pfizer e Moderna, ma impiega anche la nostra proteina priva di brevetto. L’ideale è avere un carnet diversificato di offerte, utilizzabile in base alla condizione dei singoli Paesi.
L’Occidente ha la sensazione di essere a un passo dall’uscita da quest’incubo, anche in virtù della vaccinazione di massa. Non altrettanto si può dire di molti Paesi dell’America latina, dell’Africa e dell’Asia dove l’indice delle vaccinazioni è molto basso e nei quali il Coronavirus continua a circolare con il concreto rischio di sviluppare ulteriori mutazioni, anche più letali, che poi possono innescare un nuovo ciclo pandemico anche in Occidente. Allora qual è la strategia vincente?
Innanzitutto incrementare il numero di vaccinazioni dove c’è il maggior rischio di evoluzione di queste varianti. Il fatto di disporre di tanti vaccini in Occidente, anche aggiornabili, non è una garanzia dell’uscita dal tunnel della pandemia perché nel resto del mondo il virus continua a circolare. E il virus non conosce frontiere se non vacciniamo tutti per debellarlo. Inoltre siamo preoccupati dai potenziali cicli epidemici o pandemici come quello innescato dal SARS-CoV-2. Perciò la nostra attività di ricerca, diagnosi e messa a punto di nuovi vaccini non si ferma al Covid-19. Sto pensando, per esempio, anche al vaccino contro la malattia di Chagas, e a quelli contro i parassiti intestinali che spesso mietono vittime tra milioni di persone che vivono in povertà, e sono prive di cure sanitarie.
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