Padroni della Terra o custodi del Creato?
C’è un’immagine cara a molta cinematografia fantasy: due poderosi guerrieri combattono all’ultimo sangue su un ponte sospeso, finendo per precipitare entrambi, assieme a esso, nell’abisso. Sorridiamo di tanta irrazionalità sullo schermo, ma non è forse questo la guerra oggi? Questo ho pensato lo scorso anno sentendo nominare nei telegiornali la Centrale di Chernobyl, luogo di uno dei maggiori disastri ambientali della storia europea (e non solo). Lo ricordiamo come il più drammatico evento legato alla produzione di energia nucleare: il 26 aprile 1986, per un grave incidente in uno dei reattori, fu rilasciata una enorme nuvola radioattiva. Vaste aree dell’Europa orientale furono contaminate più o meno gravemente; nell’intero continente furono migliaia i casi di tumore. Da allora la Centrale non è più in funzione e un sarcofago la racchiude, a evitare ulteriori contaminazioni.
Quando la parola Chernobyl è risuonata nelle cronache dell’aggressione russa all’Ucraina, sono rabbrividito e lo stesso brivido è tornato quando giungevano notizie di attività militari attorno all’altra Centrale ucraina catturata dai russi, quella di Zaporizhzhia, tuttora funzionante. Di fatto non risultano finora danni gravi a nessuna delle due, ma, certo, tale situazione offre un’icona significativa della drammatica relazione tra guerra e degrado ambientale. E lo stesso conflitto che ha seminato distruzione tra le popolazioni, così come sulla Terra, ha pure già visto un episodio di devastazione ambientale: con l’intenzionale distruzione della diga di Nova Kakhovka, ampie regioni sono state allagate, con un inquinamento di vasta scala.
Eventi già in sé drammatici, ma anche rivelatori, quasi icone della fragilità dellaTerra dinanzi alla potenza della macchina militare. Davvero anche per questo la guerra è ormai completamente fuori da ogni razionalità possibile, come già sottolineava sessant’anni fa la Pacem in Terris di Giovanni XXIII: nell’era nucleare la volontà di dominio che vi si esprime non genera che distruzione. Per capirne la portata, dobbiamo ricordare una dimensione della nostra condizione umana nel tempo, che stiamo imparando a chiamare Antropocéne. È la fase della storia del pianeta in cui l’agire umano è il principale fattore determinante le dinamiche biologiche e geologiche. Lo sviluppo della tecnica mette nelle nostre mani un potere tale da impattare in modo significativo sulle strutture ecosistemiche sia locali che globali. Ormai perduta l’immagine rassicurante di un mondo naturale come scenario stabile per le mutevoli vicende della storia umana, le trasformazioni dell’era industriale hanno coinvolto e sconvolto lo scenario stesso.
Che significa tutto ciò? C’è chi vi legge conferme della superiorità degli esseri umani sul mondo naturale: il testo biblico di Gen 1,27-28 non ci assegnava un compito di dominio nei suoi confronti, costituendoci come padroni? Crediamo tale prospettiva del tutto fuorviante: la Scrittura non ci colloca sopra il mondo naturale, né ci conferisce un arbitrario diritto di uso e abuso. Al contrario, papa Francesco, nell’Enciclica Laudato si’ sottolinea che noi stessi siamo terra, vitalmente connessi alla realtà del pianeta e agli altri viventi che lo abitano: anche solo l’estinzione di una specie ci ferisce; anche la perdita di un solo ecosistema ci impoverisce; non abbiamo il diritto di spengere alcuna delle voci del Creato. Noi stessi siamo drammaticamente vulnerabili al degrado di quello stesso ambiente che è a noi vulnerabile. I poveri sono i primi a esserne colpiti (e lo attestano i tanti migranti ambientali), ma è l’intera famiglia umana a essere esposta: si pensi alle prospettive del riscaldamento globale, di cui già sperimentiamo avvisaglie talora drammatiche.
In una tale condizione la pratica della guerra è come un conflitto tra elefanti in un negozio di porcellane o – per riprendere l’immagine di apertura –, come un combattimento su un ponte sospeso: l’esito più probabile è letale per tutti i contendenti. Perché quella che viviamo è già una situazione di emergenza ecologica; già il ponte è così fragile che l’unico atteggiamento necessario è collaborare per consolidarlo. Preferiamo, invece, spendere energie in azioni che lo mandano fuori equilibrio, logorandone la già provata resistenza: non solo la diretta pratica della guerra, ma anche la corsa agli armamenti, vigorosamente riavviatasi in questi anni, consuma energie e produce gas climalteranti.
Occorre cambiare decisamente rotta: la rinuncia alla guerra e la percezione della sua totale irrazionalità sono tra le premesse necessarie per una cura del Creato all’altezza della sfida incombente. La pace con la Terra è inscindibilmente collegata alla pace sulla Terra: occorrono rinnovate alleanze per prendersene cura – prendendosi al contempo cura di chi la abita – e non guerre, che la devastano.
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