Fare memoria all’africana
Noi occidentali abbiamo quasi dimenticato la centralità della memoria. Non quando si tratta di affrontare il tema da un punto di vista scientifico: allora tendiamo a primeggiare, facendo riferimento alle classiche distinzioni enunciate dagli accademici. In Africa, invece, laddove è collocata una galassia di gruppi etnici con le loro specifiche caratterizzazioni legate a tradizioni ancestrali, la memoria ha una sua sacralità che si procrastina nel tempo. Essa unisce patrimoni, commemorazioni, testimonianze, amnesie e rievocazioni.
Come sosteneva il famoso Amadou Hampâté Bâ (1900-1991), scrittore, filosofo, poeta e antropologo maliano, «le tradizioni orali sono gli archivi letterari, storici e scientifici dell’Africa». Questo modo d’intendere il deposito dei saperi, in passato, era fortemente radicato nella cultura europea, ma oggi, con l’avvento della rivoluzione digitale e della cosiddetta società post-moderna, i ricordi del passato non sembrano trovare spazio o sono legati a quelli della commemorazione, spesso formale, di eventi, luoghi, artefatti e simboli che detengono un particolare significato per le nostre comunità.
Sebbene il continente africano sia oggi inserito a pieno titolo nel perimetro della cosiddetta globalizzazione, particolarmente nelle zone rurali gli insegnamenti trasmessi dagli anziani riflettono la visione del mondo e rinsaldano i legami esistenti all’interno delle comunità etnico-linguistiche. Questa comunicazione sapienziale si traduce in forme differenti di narrazione: racconti, favole, miti, poesie, proverbi in cui vengono formalizzate le caratteristiche principali dei modelli comportamentali individuali e di vita sociale.
Nella trasmissione dei saperi riveste una particolare rilevanza il linguaggio metaforico, attraverso il quale è possibile ridefinire continuamente il modello di riferimento e dunque risolvere conflitti individuali e collettivi all’interno delle singole etnie. Siamo dunque di fronte a una molteplicità di società della parola in cui il passato è un qualcosa di vitale per ottimizzare il presente, guardando al futuro. Basti pensare a uno dei più celebri proverbi africani: «Quando due elefanti combattono, è l’erba del campo a soffrire», massima carica di significati, sempre attuali, che mette in evidenza la sofferenza della povera gente quando vi sono scontri violenti tra poteri opposti.
Rimane il fatto che il colonialismo prima e il neocolonialismo dopo hanno tentato d’impedire questa comunicazione tradizionale, innescando quello che molti studiosi definiscono un vero e proprio paradosso. Provo a spiegarmi meglio facendo riferimento alle memorie dello storico burkinabé Joseph Ki-Zerbo (1922-2006): «Quando eravamo molto giovani, in Africa dovevamo usare a scuola un manuale di storia francese che inizia con: “I nostri antenati, i Galli”. All’inizio della nostra formazione c’era dunque una deformazione. Abbiamo ripetuto meccanicamente ciò che volevano instillare in noi».
Molto interessante è anche la critica dello scrittore malgascio Jean-Luc Raharimanana, 56 anni, il quale, facendo riferimento alle sofferenze del suo popolo, ha commentato: «Quando avevo dodici, tredici anni, chiedevo a mio padre di raccontarmi il tempo della colonizzazione. Rispondeva solo: “Vivi il tuo presente”, come dite voi oggi. Ribattevo: “Sei tu il mio presente! Tu, con i tuoi ricordi!”. La generazione dei miei genitori è stata traumatizzata, inizia solo ora a parlare di ciò che ha visto. È dovere di noi scrittori tramandare la memoria». Motivo per cui il futuro in Africa non potrà prescindere dalla capacità sapiente di fare memoria.
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