Tempo di rinascere
Ava, la protagonista dell’omonimo film (Francia 2017) diretto da Léa Mysius, è una tredicenne curiosa e imbronciata che si gode il mare francese assieme alla madre Maud, una single affettuosa, invadente e impulsiva, che non rifiuta esperienze sentimentali. Ava si distende sul molo, assonnata e carezzata dal sole, mentre gusta patatine salate, ma le si avvicina improvvisamente un cane nero, ingolosito dall’odore di fritto. La felice merenda si interrompe. È l’immagine simbolo dell’estate di Ava, cui un medico oculista comunica una grave diagnosi: retinite pigmentosa.
Ava perderà progressivamente la vista, a partire dalle ore serali, quando la luce è più fioca. Un responso che toglie il fiato e che la madre in lacrime vorrebbe cancellare con un euforico colpo di spugna: «Godiamoci questi giorni!». Non è così per Ava, che non ride, ma ribolle di protesta, malinconia, paura, rabbia. Ha paura di morire senza aver visto niente di bello, come annota nel suo prezioso diario. Ava avverte, più o meno consapevolmente, il compito morale di addomesticare la malattia, di controllarne il carattere selvaggio, esplosivo.
Ava si esercita a camminare bendata persino sul tetto di casa. Ruba quel cane nero, lo battezza affettuosamente «Lupo», lo nasconde nell’armadio della sua camera, lo tiene vicino, per conoscerlo meglio, istruirlo come guida e per capire che tipo sia il suo vero padrone, Juan. Juan è un ragazzo gitano, bello e cupo, ferito all’addome dopo una conflittuale storia d’amore e isolatosi sulla spiaggia. Ava ne è attratta, lo cura e torna a trovarlo dove lui si nasconde, la casamatta militare costruita per difendere la costa atlantica. Una dimora povera e fresca. Un eremo per prendere fiato, per non scottarsi la pelle.
L’adolescenza è il tempo della rinascita. A innescare la trasformazione ci pensa il corpo, che cresce in dimensioni e accoglie vissuti mai provati. Sono messe in vibrazione le certezze infantili: la rappresentazione di sé, il legame con altri, il principio della speranza, l’idea di mondo. Ava cerca le prove di essere amabile, anzi di essere amata e non per qualche sua qualità o prestazione, ma per colei che è, per la donna che sta per diventare e che intanto le pulsa dentro, indistinta ma ineludibile.
Il miracolo della visione
Nel film Ava rappresenta la nuda terra dal fascino irresistibile, la materia fluida del mare, la sabbia del litorale che l’abbraccia, il sole implacabile che la scalda, l’azzurro di un cielo che rompe le acque e prepara un nuovo parto. Rinascere si può, ma come? Nascere dall’alto, una seconda volta, significa custodire la portata infinita del desiderio, promettere amicizia al giovane gitano e fare un viaggio con lui, da sola, senza più la mamma. Nascere dal basso sarebbe invece tradire la vita, accontentarsi di qualche «vogliuzza», truccarsi allo specchio e nascondere le occhiaie, fingere di non vedere la puerilità degli adulti, mettere in tasca qualche soldo e tirare a campare.
Il nome Ava è ambiguo come ogni nome nella pubertà. Ava può indicare la madre dei viventi (in ebraico), la protagonista di un desiderio (in germanico), la voce che chiama (in iraniano). Nel film (che consigliamo a una visione adulta) Ava è tutto questo. Decifra le proprie pulsioni, cerca una voce che le parli con affetto, vive i riti disinvolti e le maschere spregiudicate della sensualità e impara a non temere le occhiate maliziose e possessive. Disegna sulle pareti cerchi di vernice nera come misure della riduzione visiva, perché il medico le ha detto che ormai «il cerchio è chiuso», che non c’è più niente da fare per la sua retina. Ava depone ovunque segni artistici noir, per non dimenticare la luce e circondare la vita di uno spazio liberato, nonostante il buio incipiente.
Per Ava ogni giorno è come l’ultimo e ogni percezione ottica è stupefacente come la prima, poiché è vissuta sotto lo scacco della cecità ingravescente. Il film parla del miracolo della visione e, quindi, si riferisce anche all’esperienza di andare al cinema. Le luminose immagini mobili, che nella sala di proiezione picchiano sullo schermo, escono dal buio e poi vi tornano. Il cinema ha paura del buio come della morte, e lo sfida, perché il nero inghiotte le storie, i drammi, le fiabe, i sogni di cui siamo fatti. Al cinema agiamo come spettatori, personaggi (per identificazione) e registi spontanei (grazie al lavoro delle nostre fantasie). Siamo testimoni e operai della luce.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!