La chirurga scrittrice
«Avevo 20 anni e un sogno quando entrai per la prima volta in un reparto di chirurgia. Quello di fare la chirurga. Un sogno che, a quei tempi, poteva sembrare irrealizzabile. Non solo venivo da una famiglia che non poteva aspirare a certe professioni, ma soprattutto ero una donna» esordisce così Valeria Tonini, oggi chirurga all’apice della carriera sia universitaria che medica. È una delle poche donne con un ruolo accademico nel campo della chirurgia generale all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Ha eseguito oltre 8 mila interventi chirurgici, soprattutto per patologie oncologiche addominali. Eppure Valeria Tonini non è solo una professionista dedita alla medicina e alla ricerca, ma anche una scrittrice di romanzi d’amore. Opzione quanto meno bizzarra per una donna di scienza, almeno a prima vista. Stranezza che si scioglie dopo la lettura dei suoi due romanzi, ambientati a Parigi. Nel primo, L’iPhone di Amelie (Pendragon), parlando d’amore ci rivela i retroscena del mondo universitario, mentre nel secondo, Un amore in lista d’attesa (Pendragon), si addentra senza pietà nei meandri della professione chirurgica. «Purtroppo, accanto ai chirurghi eroi, ci sono anche i dottor Tersilli ? il famoso “medico della mutua” interpretato da Alberto Sordi ?. Medici che, invece di pensare al malato, pensano ai soldi e alla carriera». I suoi romanzi, quindi, sono collegati alle sue altre vite. «Ho scritto nella speranza che certe informazioni possano essere utili ai tanti pazienti che, da profani, si trovano all’improvviso a doversi destreggiare nel complesso mondo della chirurgia».
Msa. Che cosa le ha permesso di arrivare al livello in cui è?
Tonini. Prima di tutto il mio carattere. La determinazione, l’ostinazione. Credo che abbia giocato un ruolo il fatto che i miei genitori non avessero avuto la possibilità di studiare, quindi percepivo una muta richiesta di riscatto sociale.
Perché proprio la chirurga?
Quando ero bambina, e mi chiedevano che cosa volessi fare da grande, dicevo che volevo scoprire una medicina miracolosa che ci avrebbe consentito di non morire. Mi risultava insopportabile il pensiero che un giorno avrei dovuto abbandonare me stessa, le persone che amavo, per andare in un posto che non sapevo esattamente dov’era. Mia madre mi consolava dicendo che là avrei ritrovato quelli che erano andati via, ma per il momento loro erano là e io qua. Insomma, dovevo trovare assolutamente il modo di non morire. E direi che, sia pure in modo diverso, l’ho trovato.
Ha avuto un modello?
Il dottor Kildare, il chirurgo protagonista di una famosa serie televisiva, che guardavo la sera con mia mamma. In ogni puntata lo si vedeva alle prese con pazienti gravissimi che lui riusciva sempre a salvare. Per me bambina, Kildare era l’uomo che riusciva a vincere la morte. Quello che mi colpiva, però, non era solo il risultato. Kildare riusciva a entrare nella vita dei suoi pazienti con il cuore e la loro vita diventava la sua. Da grande volevo essere come lui. E così sono entrata in una sala operatoria più di quarant’anni fa e da lì non sono più uscita.
Una grande chirurga che scrive romanzi d’amore stupisce.
Nella mia vita ho scritto soprattutto articoli scientifici. Solo negli ultimi anni mi sono dedicata ai romanzi e, tra le righe di una storia d’amore, racconto i retroscena del mondo universitario e ospedaliero. Con questo escamotage sono riuscita a raggiungere un numero molto più ampio di lettori rispetto a un noioso saggio su questi argomenti.
Che cosa hanno in comune la chirurgia e la scrittura?
Credo che il mestiere del chirurgo e dello scrittore si somiglino e manifestino entrambi la voglia di vivere intensamente. Nei pochi metri di una sala operatoria è possibile vivere tante storie, soprattutto per chi, come me, fa certi tipi di chirurgia, come quella oncologica e d’urgenza. In questi contesti, l’incontro con i pazienti avviene in momenti drammatici e i colloqui diventano intimi, profondi, molto lontani dalla superficialità del quotidiano. Il chirurgo vive le storie, lo scrittore le scrive. Io ho voluto fare tutte e due le cose.
C’è pure un motivo personale?
Mi sono resa conto a un certo punto che le storie che vivevo erano sempre quelle degli altri. Ho quindi provato il desiderio di scrivere qualcosa di me, quello che avevo dentro e non avevo mai avuto il tempo di ascoltare. Come dice Murakami, alcuni hanno bisogno di scrivere per capire. Io sono tra questi.
Stupisce che una professionista nella sua posizione non abbia timore di svelare le distorsioni del proprio mondo.
Tengo a precisare che questi romanzi li ho pubblicati adesso, quando, forte di quello che ho fatto, ho l’autorità di parlare. Le mie non sono le critiche della volpe che non è arrivata all’uva, ma vorrebbero essere le critiche costruttive di chi ha lavorato per quarant’anni in un sistema e vorrebbe migliorarlo.
Che rapporto ha con il potere?
Non sono mai stata interessata a posizioni di potere. Per me il potere di ridare la vita a un altro è il massimo dei poteri concesso a un essere umano. Mi sono però resa conto, invecchiando, che invece è importante avere posizioni di potere ed è giusto che le abbiano anche le donne. Solo una posizione di potere, infatti, ti può consentire di scegliere oggi i giovani più meritevoli, per costruire una società del domani migliore.
Che cosa significa avere la responsabilità di una vita?
È una grande responsabilità, perché una persona si affida a te. Ti dà il diritto di entrare nel suo corpo, profanarlo, tagliarlo, asportarne delle parti, ricucirlo. È un grande atto di fiducia. E tu devi rispondere a questa fiducia con attenzione, precisione direi maniacale. Non sono ammesse mosse sbagliate. Al termine di certi interventi, la sensazione che si prova è quella di aver ucciso la morte. Il legame tra il chirurgo e il paziente è uno dei più profondi tra gli esseri umani. È l’affetto che lega la madre al proprio figlio e il figlio alla propria madre.
E quando la soluzione non c’è?
È una domanda che mi sono posta molte volte. Noi chirurghi siamo stati programmati per vincere, non per perdere. Nei lunghi anni di studio mi hanno insegnato le tecniche per combattere la morte, non per accettarla o farla accettare a un altro. E ancora adesso, dopo tanti anni che faccio questo mestiere, spesso non riesco a trovare le parole per dirlo.
Il sistema sanitario nazionale è sempre più sotto attacco, lei che cosa vede dal suo osservatorio?
Nel mondo della chirurgia non ci sono solo dottor Kildare. Ci sono lotte per il potere, giri di denaro, invidie tra colleghi. C’è il mondo dell’università, dei direttori, della politica. Il mondo della sanità è quello in cui gira la maggior quantità di denaro e la continua riduzione di investimenti nella sanità pubblica ha portato a un progressivo allungamento delle liste d’attesa. Di questa situazione approfittano i dottor Tersilli che cercano di deviare i pazienti verso la sanità privata. Il paradosso è che quando il paziente, da profano, deve scegliere un chirurgo, spesso è portato a rivolgersi a quello che costa di più, come quando si compra un elettrodomestico. Non è detto però che il chirurgo che costa di più sia il migliore. Forse è solo il miglior «venditore di se stesso». Spero che il mio romanzo possa in qualche modo contribuire a difendere la sanità pubblica.
È mai passata dalla parte dei pazienti?
Sì, e questo mi ha fatto capire ancora meglio che viviamo tutti sotto uno stesso cielo. Come dice Camus ne Il mito di Sisifo, la nostra vita non ha senso se non siamo capaci di trovarlo in un impegno sociale. Io questo senso l’ho trovato nel mio mestiere.
Com’è l’essere umano visto da dentro l’ospedale?
In questi quarant’anni ho incontrato migliaia di persone che avevano davanti a sé lo spettro della morte. E quello che mi veniva chiesto non era solo di asportare un tumore o fermare un’emorragia, ma di sostenerli in quella prova. Ero io in quel momento l’unica ancora di salvezza. In mezzo a tutto questo dolore ho provato emozioni intense, sentimenti veri. Ho sentito la vicinanza, l’affetto, l’amore tra gli umani, un sentimento troppo spesso dimenticato. Ho avuto la sensazione di vivere una vita vera e mi sentivo privilegiata di poter conoscere gli uomini nel profondo, senza più maschere, nudi nella loro vera identità. L’essere umano malato è buono e il mondo, visto dalla mia prospettiva, sembra abitato solo da brave persone. Quando il mio paziente uscirà di qui, forse sarà di nuovo quello di prima. Ma io lo vedo qui e quello che accade là fuori non mi interessa.
Lei ha a che fare con molti giovani in ambito universitario, un luogo in cui le logiche sono spesso clientelari. Che consiglio darebbe loro?
Di non entrare in certi sistemi come gregari. Bisogna portare avanti le proprie idee con determinazione. Dimostrare quello che si è capaci di fare. Imparare a incassare, senza arrendersi. Alla fine, quello che si fa viene fuori. E anche se non riusciranno a cambiare questo mondo, come non sono riuscita io, potranno almeno essere fieri di loro stessi. La specializzanda Renée del mio romanzo rappresenta i giovani su cui dobbiamo puntare. Quelli che scalpitano, come me a 20 anni. Ho scelto una donna perché spero che in futuro ci sia abbastanza spazio anche per loro e non siano costrette a combattere come ho dovuto fare io. Sono quelli come Renée che soffrono di più nei sistemi universitari, dove vengono privilegiati coloro che mantengono il sistema rispetto a quelli che vogliono cambiarlo. Ma non dimentichiamolo: si vince facendo correre quelli che corrono più veloci, non facendo correre i propri amici.
Nel sistema universitario fa carriera chi ha un numero più alto di pubblicazioni. Scrivendo romanzi toglie inchiostro alla scienza?
La carriera oggi si fa in base al numero di pubblicazioni, è vero. E questo induce gli universitari a pubblicare molto e spesso a ripubblicare sotto diversa veste gli stessi articoli. Questa «iperproduzione» è anche stimolata dalle università che così mantengono alto il proprio ranking. Il punto su cui però non sono d’accordo è che nei passaggi di carriera in chirurgia contino più le pubblicazioni della casistica operatoria.
Nei suoi romanzi c’è una morale generale, un messaggio in bottiglia che lei vorrebbe consegnare al lettore?
Sì, e per raccontarlo ricorro al libro di un esperto di finanza, Nassin Taleb, Il cigno nero. Dice Taleb: sono gli eventi improbabili, improvvisi, violenti, «i cigni neri», a cambiare il corso della storia. L’11 settembre, le guerre, i crolli delle borse, le pandemie. E sono sempre i cigni neri che delineano la trama delle nostre vite: l’amore, le malattie, la morte. Mi è capitato spesso di essere presente nel momento in cui le persone incontravano il loro cigno nero. Persone che fino a un’ora prima erano disperate per una lite di condominio e un’ora dopo il loro problema era il cancro. Purtroppo, noi umani comprendiamo la felicità solo quando l’abbiamo perduta. Credo di aver imparato molto dal mio mestiere. Ho imparato che la vita è breve e non bisogna perderla «aspettando Godot». Non bisogna tormentarsi per cose da niente. Bisogna imparare a godere dei momenti di sole e anche di quelli di noia. Quelli in cui non accade niente. Proprio perché non accade niente. Spero che il cigno nero della malattia sia per i pazienti, come lo è stato per me, una lezione di vita.
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