Gaza, questi mesi con Sami
È passato poco più di un mese da quando Sami al-Ajrami è riuscito a lasciare Gaza. Un mese prima era riuscito a far attraversare il valico di Rafah alle sue figlie gemelle. Besan e Ruba, che hanno compiuto, a quanto leggo, i loro 20 anni al sicuro. Sami al-Ajrami è un giornalista palestinese nato nel campo profughi di Jabalia, nel Nord della Striscia, una cinquantina di anni fa (non trovo tracce di un’età esatta). In questi ultimi mesi ci ha raccontato, giorno dopo giorno, la guerra a Gaza. Il suo diario è stato ben più prezioso dei gelidi bollettini dei bombardamenti, della cronaca giornalistica di un orrore o del gioco terribile di una diplomazia impotente. Sami ci ha raccontato la vita quotidiana. Il dolore, i lutti, l’abbandono, la desolazione, la speranza. Ci ha fatto provare fame, avvertire gli odori acri delle mosche e dei rifiuti, ci ha fatto vedere da vicino le macerie, la polvere, lo sfinimento. La famiglia di Sami è stata sfollata sette volte: «Ognuno di noi, ha sempre con sé una valigia dove conserva i documenti, un cellulare, qualche vestito. Niente altro. Pronti a fuggire. Abbiamo perso tutto. Il passato e il futuro».
Il primo desiderio di Sami, raggiunto il Cairo, la casa di un cugino, è stato quello di fare una doccia calda. Lo possiamo capire noi, lontani da questa tragedia, questo bisogno elementare? E poi: un pasto «normale», seduto in un ristorante. «Tutti i bar di Gaza sono stati distrutti». Una doccia, una cena, vestiti puliti: erano i desideri anche di Besan e Ruba.
Sami, in questi mesi, ci ha fatto capire, con un racconto dal basso, cosa non si vede dietro le inquadrature dei soldati israeliani che marciano tra le macerie di Gaza (l’80% della Striscia non esiste più), ci ha fatto comprendere la paura e l’impotenza, la lacerazione di cittadini comuni stretti nell’oscenità di una guerra. Il diario quotidiano di Sami nelle pagine di «La Repubblica» è stato lo specchio di un’immensa tragedia. Non possiamo nemmeno immaginare cosa abbiano visto gli occhi di Sami. E come è stato possibile scrivere, dettare i pezzi, raccogliere informazioni senza avere a disposizione strumenti che noi consideriamo banali: provate a ricaricare un cellulare o mandare un articolo senza che niente, elettricità o Internet, funzioni?
Quello che mi colpisce sono sempre i dettagli. Chi riusciva a uscire da Gaza, prima che Israele occupasse anche il valico di Rafah, era stupito di ritrovarsi su un pulmino dove veniva offerto uno snack e dell’acqua fresca. «Tutto ciò che a Gaza costa una fortuna, appena fuori è a portata di mano». Hanno detto le figlie di Sami: «È stato sconvolgente accorgersi come il mondo va avanti senza curarsi delle sofferenze di chi è lì dentro». E rimane un indecifrabile senso di colpa. Sami, nella felicità e nel dolore di vedere andar via le sue ragazze, ha subito detto: «Ho salvato le mie figlie, ma nessuno riuscirà a salvare altri ragazzi e ragazze come loro».
Attraverso Sami abbiamo saputo, quasi con stupore, che da Gaza si poteva uscire. Certo, forse era indispensabile avere un doppio passaporto o altri privilegi, ma sono certo che bastasse il denaro: se eri un adulto palestinese, la salvezza, la fuga costava, nelle ultime settimane, cinquemila dollari. La metà, se eri un ragazzo con meno di 16 anni. Il visto di uscita lo ottenevi attraverso la Hala Consulting and Tourism Service. Che ti offriva anche un servizio Vip. Turismo della disperazione, guardatene la pubblicità su Facebook. Quasi un’ironia perversa in mezzo a una catastrofe. Un’agenzia che appartiene a un potente leader tribale del Sinai. Ben introdotto con il potere egiziano e con i servizi segreti. Ho letto, senza alcuna possibilità di un controllo, che Hala ha ricavato, negli ultimi tre mesi e solo organizzando l’uscita da Gaza di palestinesi, 118 milioni di dollari. Oltre tredicimila palestinesi, tra adulti e bambini, sarebbero fuggiti da quell’inferno. A caro prezzo. Organizzando collette tra gli amici all’estero, se non eri un ricco commerciante. Un gioco terribile, la salvezza affidata ai soldi. Possiamo solo intuire quale sia il mondo dietro i servizi offerti da Hala.
Molti anni fa, Sami era l’unico giornalista di Gaza che lavorava per un giornale israeliano. Da ragazzino aveva imparato, da autodidatta, l’ebraico e l’inglese. Nel 2007, Hamas aveva vietato l’ingresso nella Striscia a giornalisti israeliani, e Sami cominciò una collaborazione con giornali di Tel Aviv. Anni dopo, spiegherà di aver capito allora l’importanza del suo lavoro: far leggere agli israeliani le voci di Gaza che, altrimenti, non potevano ascoltare. E raccontare alla sua gente, che mai è potuta uscire dalla Striscia, che cosa sia Israele e cosa vi accada. Ma nel 2012, Hamas decise di vietare ogni collaborazione di giornalisti gazawi con i media israeliani. Da allora Sami ha lavorato per l’Ansa e per altre testate internazionali. Fino alla redazione quotidiana del suo diario nelle pagine di «La Repubblica». Un lavoro «importante e ammirevole», ha scritto «Il Post». Spesso doveva raggiungere un vicino ospedale, da dove poteva solo «dire» il suo pezzo, che veniva raccolto da una redattrice a Roma.
Abbiamo tirato un sospiro di sollievo nel sapere che anche Sami, come le figlie, è uscito da Gaza. Troppo pericoloso continuare il suo lavoro, era diventato un obiettivo da eliminare. E anche se il suo diario ci manca, siamo felici che sia in salvo.
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