No other land
Il loro lungometraggio ha appena vinto nella categoria «miglior documentario» agli Oscar 2025. Stiamo parlando di quattro ragazzi, due palestinesi e due israeliani. Scriviamo i loro nomi: Basel Adra e Yuval Abraham, Hamdan Ballal e Rachel Szor. Il loro film è No other land. Non c’è un’altra terra. I palestinesi di fronte ai piani che prevedono la loro cacciata dalla Palestina, replicano: «Non abbiamo un altro posto dove andare, questa è casa nostra». Michel Sabbah, 93 anni, nato a Nazareth, fu il primo patriarca arabo dei Latini a Gerusalemme. Nominato da Giovanni Paolo II nel 1988. Oggi è patriarca emerito e, ogni giorno, da oltre un anno, scrive una preghiera al giorno per invocare la pace nella sua terra. Agli inizi di febbraio, il primo giorno della tregua, ha scritto: «Signore, noi certo resteremo nella terra che Tu ci hai donato. E Tu riconduci all’umanità, alla giustizia e all’amore».
La terra dalla quale Israele vuole cacciare contadini e allevatori palestinesi sono le colline subito a Sud di Hebron, in Cisgiordania. Sono diciannove villaggi di baracche, tende e fragili case in muratura conosciuti come Masafer Yatta. Secondo una interpretazione del nome, potrebbe significare «niente». Ci sono solo pietre e aridità, ma questi villaggi sono ostinati: sono già presenti nelle carte dell’impero ottomano. Qui, oggi, vivono, circa tremila persone. Fanno parte della cosiddetta Zona C, un’area sotto controllo militare e amministrativo di Israele. Da anni, l’esercito israeliano vuole utilizzare questo territorio come «campo di tiro», la Firing Zone 918. Nell’estate del 2019, ruspe e scavatori entrano in funzione protetti dai soldati: è una distruzione sistematica, cattiva, impietosa. Rase al suolo le case, sepolti i pollai, estirpati i pochi alberi, cementati i pozzi, rubati gli animali. Nel 2022, una sentenza della Corte Suprema israeliana aveva dato il via libera giudiziario alle demolizioni dei villaggi. È uno degli «sfratti» più grossi dalla Catastrofe, la Nakba palestinese, del 1948.
Una sola arma per opporsi alle distruzioni è impugnata da un ragazzo palestinese poco più che ventenne: Basel Adra tiene in mano una piccola handcamera e filma, «ho cominciato a girare quando è cominciata la nostra fine». Filma i soldati, filma la ferocia dei coloni che aggrediscono i contadini palestinesi, filma le devastazioni. La telecamera è un turbine, Basel non è un cameraman, lo diventa. Il confine che Basel non può valicare è poco distante dal suo villaggio. Mezz’ora di auto da dove vive Yuval Abraham, un altro ragazzo, israeliano. Yuval non si gira dall’altra parte: conosce l’arabo, si è rifiutato di far parte dei servizi segreti del suo Paese. Prova a fare il giornalista, fa parte della redazione della rivista online +972 (è il prefisso telefonico di Israele e Palestina), prova a far conoscere la realtà dei palestinesi. Conosce Basel, viene ogni giorno al suo villaggio. Supera la diffidenza di Basel e degli abitanti di Masafer Yatta. Rimane a mangiare con loro, a parlare nelle notti, scrive quello che vede, quello che ascolta.
Per quattro anni, Basel e Yuval filmano e raccontano quanto accade a Masafer Yatta. Ai due ragazzi se ne uniscono altri due, Hamdan e Rachel. Assieme trasformano gli spezzoni del girato in un documentario. Montano con maestria e tensione. La loro telecamere e i loro cellulari non sfuggono mai di mano. Le immagini sono disturbanti, a volte insopportabili, ripetitive, ma questa è la realtà della Terra Santa di Palestina e Israele. Noi, al sicuro nel buio di una sala cinematografica, «facciamo parte»: scappiamo assieme a Basel e Yuval, cadiamo, assistiamo alla distruzione dei villaggi, delle scuole, al sequestro dell’unica vacca, cerchiamo di rassicurare i bambini, guardiamo le donne che piangono, vorremmo consolare l’inconsolabile: una madre che assiste il figlio paralizzato, colpito da un proiettile israeliano sparato solo perché cercava di difendere il generatore di corrente del suo villaggio.
No other land è riuscito ad arrivare in Europa. Ha percorso l’Italia in serate sempre affollate. Ha vinto il premio come il miglior documentario al Festival di Berlino. E ora è nella cinquina degli Oscar. In Germania, Yuval ha preso la parola sul palco: «Siamo qui ora di fronte a voi, io e Basel, e abbiamo la stessa età. Io sono israeliano, Basel è palestinese. E tra due giorni torneremo in una terra dove non siamo considerati uguali. A differenza di Basel, io non vivo sotto una legge militare. Viviamo a trenta minuti di distanza, ma io ho diritto di voto, Basel no. Sono libero di muovermi dove voglio in questa terra, mentre Basel, come milioni di palestinesi, è bloccato nella Cisgiordania occupata. Questa situazione di apartheid, questa ingiustizia deve finire». Per queste parole Yuval è stato accusato di antisemitismo dal sindaco di Berlino. Ha replicato: «I miei genitori sono sopravvissuti all’Olocausto, venire accusato in Germania di antisemitismo solo per chiedere un cessate il fuoco è scandaloso».
No other land è un film potente. Posso dire contro ogni evidenza? Dona una speranza disperata, se quattro ragazzi, che la storia ha condannato a essere nemici, riescono a lavorare assieme e a raccontare questa storia, allora, a volte, l’impossibile può essere possibile. Leggo che dopo la nomination agli Oscar, gli attacchi dei coloni e le distruzioni delle case di Masafer Yatta si sono intensificati. Ai primi di febbraio, sono state rase al suolo le case di nove famiglie palestinesi.
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