Anziana, ma di classe

La nostra lingua è un’affascinante signora che, per restare al passo coi tempi, è pronta a indossare l’abito sportivo dei neologismi d’origine inglese. Ma una cosa non può farla: derogare a sintassi e morfologia. Pena la perdita della sua eleganza.
17 Febbraio 2025 | di

Protagonista di questo nostro incontro è una bella signora di una certa età: aristocratica, raffinata, elegante, una signora di gran classe, che è sempre stata ammirata, anzi corteggiata; ha frequentato i palazzi del potere, riconosciuta per secoli come un modello di perfezione. Una signora che ha ormai superato i mille anni d’età. Si chiama Lingua Italiana. È una lingua parlata, nei suoi infiniti idiomi locali, da più di mille anni. Ed è scritta, anzi vive in immortali capolavori letterari, da più di ottocento. Ma oggi la nostra elegante signora sta affrontando un momento difficile della sua vita, perché è venuta a trovarsi nel mondo, nuovo per lei, della comunicazione globale. I tempi sono cambiati. Le belle maniere e gli omaggi d’un tempo sono un ricordo.

Oggi è costretta a mescolarsi con altre lingue, deve abbandonare le rassicuranti pareti della sua ricca dimora, una dimora raffinata, quasi un castello incantato, dove si sentiva protetta e in perfetta armonia. Ora deve scendere in strada e questo forse non le fa piacere; deve imbucarsi nella metropolitana, fare la spesa al supermercato, e confrontarsi con la vita e con la gente di tutti i giorni. Ma in più, e soprattutto, è messa in difficoltà dai nuovi mezzi di comunicazione, dalla televisione fino ai social media, che richiedono una velocità e una sintesi che non le sono familiari, e la obbligano ad accettare una gran quantità di nuovi vocaboli dalla foggia strana. E qui la sua naturale eleganza sembra in pericolo, lascia intravedere qualche momento di fragilità e non pochi indugi d’incertezza. Insomma, l’italiano, oggi, è una lingua nella tempesta di un mondo in evoluzione turbinosa, continua e spesso caotica.

Ciò che si può cambiare…

Proviamo a capire cosa sta succedendo. Diamo un’occhiata ad alcuni scorci rivelatori. Primo esempio: una quarantina d’anni fa nessuno sapeva che cosa fosse il web. Come ben sappiamo, questa parola inglese nella lingua originale significa rete, reticolo, intreccio, tessuto e anche ragnatela. È, infatti, la ragnatela di contatti di un nuovo modo di comunicare. Il termine web, entrato ufficialmente nella nostra lingua, si è portato dietro tutto il mondo e il vocabolario di internet. Ed ecco che oggi parliamo disinvoltamente di computer, email, password, mouse, hacker, virus, e, se siamo un po’ addentro nella materia, non ci spaventano termini come server, provider, browser, download, spamming e tanti altri. Senza questi e tutti gli altri vocaboli, tutti di origine inglese ma entrati necessariamente nel vocabolario italiano, non sapremmo come muoverci e come capirci nel mondo della comunicazione digitale.

L’occhiata che abbiamo dato apre il panorama dei cosiddetti neologismi che sono venuti improvvisamente ad abitare nella nostra lingua. E dicendo neologismi usiamo un vocabolo, costruito con termini dall’antica lingua greca, che significa letteralmente parole nuove. I vocaboli nuovi immigrati nella nostra lingua in questi ultimi anni, tutti immigrati regolari s’intende, sono, secondo i calcoli di molti linguisti, circa 4mila, ma in continuo aumento; e in gran parte, per non dire nella quasi totalità, di origine inglese. 

Facciamo qualche altro esempio. Prendiamo il mondo politico: bipartisan, authority, opinion leader, premier, first lady, politically correct, question time, welfare, impeachment, privacy, lobby… E ora curiosiamo nel mondo dello spettacolo: showman, showgirl, talk show, reality show, fiction, serial, soap opera, film, prime time, media, audio, video, streaming, star system, set, backstage... E che dire del mondo dell’economia? Ecco qui business, marketing, target, sponsor, spending review, share, hard selling, new entry, broker e così via.

Attenzione: non abbiamo citato, fino a ora, linguaggi specialistici, propri di materie che richiedano una laurea o un diploma, come la chirurgia o l’economia gestionale, ma linguaggi appropriati a vari settori che ormai fanno parte della nostra vita quotidiana e del nostro costume, e che sono d’uso comune nel giornalismo, nei telegiornali, nei talk show, appunto. D’altra parte, semplicemente andando a passeggio, ci può capitare di fermarci a mangiare in un fast food, di fare la nostra disciplinata coda al self service, di sfamarci con un bell’hamburger oppure di soffermarci al bar che conosciamo per un happy hour; e se poi ci resta tempo, di entrare in una libreria e chiedere l’ultimo best seller, e se lì vendono anche i quotidiani, di rimanere sconvolti leggendo delle gesta dell’ennesima baby gang.   

… e ciò che deve restare

Vien quasi da pensare: povera la nostra bella, elegante, nobile, anziana signora millenaria, come potrai sopravvivere a tanta invasione? La risposta ce la dà forse proprio la realtà: la nostra bella lingua si sta adattando alle esigenze dei tempi, si aggiorna nel vocabolario attingendo dalla lingua dominante che oggi, in tutto il mondo, è l’inglese. Ci furono tempi, poco più d’un secolo fa, in cui attingevamo dal francese. Termini come complotto, barricata, comò, ragù, maionese, gabinetto, gilé sono entrati disinvoltamente nel nostro linguaggio quotidiano attraversando le Alpi. Persino i pantaloni ci provengono dai pantalons della Francia rivoluzionaria, che fece proprio il nome di una nostra celebre maschera, Pantalone appunto, che li indossava sui palcoscenici della Commedia dell’Arte.

Del resto, se facciamo un balzo ancora più indietro, d’un millennio e più, e ci riportiamo ai tempi della nascita della nostra lingua, constatiamo che essa è indiscutibilmente figlia del latino, e su questo non ci piove, ma con il contributo determinante di varie lingue barbariche, lingue germaniche, celtiche, persino l’arabo, portate dalle varie invasioni che per secoli hanno transitato per la nostra penisola, lasciandovi tante tracce e testimonianze. Parole d’uso quotidiano come scarpa, gonna, zero, franco, stoccafisso, gabella e tante altre, vengono proprio di lì. La nostra lingua si è nutrita dell’apporto di tante altre lingue, e Dante, padre della nostra letteratura, ne dà testimonianza.

In realtà, la vera insidia per l’integrità della nostra lingua non viene dalle parole importate da fuori, che servono finché servono, ma un giorno potrebbero essere dimenticate, o messe da parte, o sostituite. La vera insidia per la lingua italiana viene dalla mancanza di rispetto, oggi ahimè troppo diffusa, verso la sua sintassi. Perché la sintassi, cioè la struttura del discorso, la costruzione della frase, l’uso dei modi e dei tempi giusti nei verbi, quella sì è il marchio inconfondibile della nostra identità culturale. Possiamo importare dall’inglese tutti i neologismi che ci servono, ma non dobbiamo importare la sintassi inglese, quella proprio no. 

Intendiamoci con un esempio. L’esempio più drammatico, e purtroppo sempre più diffuso, di mancanza di rispetto verso la nostra sintassi e di pedestre imitazione dell’inglese, è l’eliminazione del congiuntivo e la sua sostituzione con l’indicativo. In pratica, dire per esempio «voglio che tu vai a scuola» invece del corretto «voglio che tu vada a scuola». Questo errore, diffusissimo nei film e telefilm, spesso non è dovuto a ignoranza ma a una precisa scelta, figlia di un pregiudizio culturale di molti professionisti della comunicazione.

Autori di film e telefilm, direttori di doppiaggio, a volte anche giornalisti, trovano l’italiano inadeguato a rendere la modernità scattante dell’inglese. Così il congiuntivo, fiore all’occhiello della nostra raffinatezza linguistica, rischia di morire non lungo le strade, ma nei mezzi di comunicazione. La verità è che gli inglesi non usano il congiuntivo perché non ce l’hanno. La loro lingua è molto più povera della nostra, dunque molto più semplice da praticare. Usiamo pure l’inglese come lingua universale, quando abbiamo bisogno d’intenderci con un cinese, un giapponese, un russo, benissimo; ma non facciamo un torto al nostro italiano chiedendogli di imitare la sintassi inglese.

Giusto per fare un altro esempio, pensiamo alla ricchezza espressiva di quei due versi cantati da Radames in una famosa romanza dell’Aida: «Se quel guerrier io fossi / se il mio sogno si avverasse…». Due congiuntivi che esprimono l’ansia, la speranza, il sogno dell’eroe. Nella sintassi imitazione inglese dei nostri innovatori diventerebbero: «Se quel guerrier io ero / se il mio sogno si avverava…». Orrore! Ci sono altre insidie che minacciano l’italiano. Per esempio, la sciatteria, di chi scrive c’amiamo, c’odiamo, c’uniamo invece di ci amiamo, ci odiamo, ci uniamo eccetera, creando un’elisione della i che però cambia necessariamente il suono della c, che davanti a vocali come a, o, u, da palatale diventa gutturale, cioè acquista un suono duro, come in casa, corda, cucire invece del suono dolce di ci. È un errore grave, spesso diffuso anche nei libri.

La nostra vecchia, affascinante, amata signora, per rendersi adeguata alla vita d’oggi è pronta a indossare l’abito sportivo dei neologismi d’origine inglese. Ma quanto alla struttura inimitabile della sua sintassi e alla precisione della sua morfologia vuole rispetto: sono materie non negoziabili.

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Data di aggiornamento: 17 Febbraio 2025

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