Il magistrato melomane
«Tornando a casa progettate un bel giallo con tanti omicidi: vi farà bene alla salute». Chissà se Giancarlo De Cataldo, uno dei più apprezzati autori italiani di noir, segue il consiglio dello scrittore Daniel Pennac. Sicuramente nella sua quarantennale carriera di magistrato ha avuto spesso a che fare con delitti e intrighi degni dei migliori romanzi gialli. E alcuni li ha anche messi in prosa: la storia della Banda della Magliana, ad esempio, è diventata il celebre Romanzo Criminale da cui sono stati tratti un film, una serie televisiva e presto anche un’opera lirica con lo stesso De Cataldo come librettista. Smessa la toga, l’ex magistrato ha potuto dedicarsi a tempo pieno alla scrittura: dalla sua penna sono così nati, tra gli altri, i gialli con protagonista il magistrato Manrico Spinori, anche lui melomane come il suo autore. Nel 2022, infatti, De Cataldo ha dato vita al progetto Opera Noir, spettacolo nel quale vengono esplorati i legami e i collegamenti tra l’opera lirica e il genere giallo e soprattutto tra i libretti d’opera e il libro crime.
Msa. Ha sempre voluto fare il magistrato?
De Cataldo. No, da piccolo il mio sogno era di fare il pilota di Formula 1... e a momenti non prendevo nemmeno la patente! Poi ho incontrato la lettura e da quel momento sono diventato un appassionato della scrittura. Il mio sogno quindi cambiò e lo decisi la sera che al cineclub dei Gesuiti, a Taranto, vidi un film che mi cambiò la vita, Zabriskie Point, pellicola di cui sono rimasto sempre innamorato. Decisi che avrei scritto un libro, fatto un film e imparato a suonare il saxofono. Ma per la terza non sono riuscito, niente sassofono.
Perché e quando ha deciso di diventare magistrato?
Perché, essendomi laureato in legge, ho capito che quella sarebbe stata l’unica professione possibile per me. Non mi sarei sentito bene a fare la parte, cioè il pubblico ministero o il difensore. Ho una propensione naturale a stare in mezzo, a sentire le ragioni delle parti. Il magistrato è, o almeno dovrebbe essere, il punto di equilibrio, quel mettersi in mezzo tra chi ha subito un torto e chi lo ha perpetrato per evitare che la gente venga poi alle mani.
Si è mai pentito della scelta fatta?
No, l’ho fatto per quarant’anni: se mi fossi pentito me ne sarei andato.
E dopo un’esperienza di quarant’anni, che cos’è per lei la giustizia?
L’ho scritto nel libro In giustizia. Per me la giustizia è un’aspirazione. Dal Codice di Hammurabi sono passati oltre 3mila anni, ma già quel codice, che a noi sembra barbaro e primitivo, è un progresso rispetto al periodo precedente perché stabilisce una legge. La legge fissa un complesso di regole e, attraverso la gestione e il rispetto delle regole, le società trovano una loro stabilità. Le regole poi cambiano, si evolvono con la Storia. La giustizia è quindi un’aspirazione degli esseri umani a fare sempre meglio, a creare e inventare sistemi giudiziari che siano sempre più rispettosi dei diritti di tutti. Poi ovviamente siamo essere umani, quindi siamo imperfetti, non ce la facciamo, anzi a volte sprofondiamo nell’abisso. Ci illudiamo di aver conquistato una certa stabilità, un insieme di regole comuni: dopo la Seconda Guerra Mondiale e dopo il processo di Norimberga, elaboriamo la categoria dei crimini contro l’umanità e gli organismi internazionali tendono ad avere una giustizia media per tutto il mondo, ma poi succedono cose come in Serbia, a Sarajevo, in Sudan, il 7 ottobre 2023, Gaza, l’Ucraina e così via... Quindi la giustizia è un’aspirazione perché è dialettica, è costante, non è assoluta. E, soprattutto, dipende dal grado di vigilanza e di impegno e di convinzione e di tenacia di noi esseri umani.
È credente?
È una questione molto affascinante. L’idea che ci sia qualcosa o qualcuno aldilà, un principio ordinatore di questa sostanza caotica della quale siamo composti noi esseri umani è un’idea che mi affascina e mi seduce. Però ci sono distanze abissali: ad esempio, la morale sessuale delle confessioni è terrificante per un laico come me. Io sono innamorato di tantissime aperture di papa Francesco, poi però le posizioni sull’aborto, ad esempio, sono dal mio punto di vista inaccettabili. Ci sono momenti di vicinanza e momenti di frattura quindi.
Quindi per lei non esiste una giustizia più alta di quella umana.
Per chi crede, sicuramente esiste. Dal punto di visto storico, il diritto canonico ha influenzato molto il diritto laico: il concetto di dolo, per esempio, entra nel diritto positivo grazie alla canonistica. Non è soltanto dire: «Hai commesso un reato, quindi ti punisco». Entrano in gioco le gradazioni della colpa di questo reato, quindi un’indagine più approfondita: quella la dobbiamo al diritto canonico. Prima parlavo di aspirazione, perché penso agli sforzi che abbiamo fatto e continuiamo a fare perché la giustizia funzioni sempre meglio e agli ostacoli che troviamo e a quante volte ci arrestiamo e torniamo indietro, mentre chi crede ha trovato il suo giudice perfetto e supremo. Magari fosse così anche per noi laici.
Per la sua esperienza di magistrato, nella realtà la giustizia trionfa sempre?
È una domanda che mi sono posto tante volte. Non posso rispondere in termini assoluti, ma posso dire che sicuramente se è un’aspirazione è perfettibile, quindi un’affermazione come «la giustizia trionfa sempre» non mi sento di sottoscriverla.
E nei suoi libri la giustizia trionfa?
Si, perché sono io che decido e allora i cattivi vengono puniti. O comunque si sa chi sono, ma questo perché nei gialli noi abbiamo l’obbligo di dare la soluzione. Io come lettore per primo resto deluso e quindi non voglio deludere i miei lettori.
E nella lirica c’è la giustizia?
Questo è un campo interessantissimo di confronto. Nella lirica non c’è sempre la giustizia, anzi: nell’Otello non c’è giustizia, c’è una tremenda ingiustizia. Il Rigoletto è pervaso da un senso terribile di ingiustizia. Direi che la lirica si pone il problema della giustizia e lo affronta liricamente, quindi sottomettendo sempre la giustizia alle passioni umane che sono il vero territorio della lirica.
Il suo ultimo libro, Per Questi Motivi. Autobiografia criminale di un Paese, ripercorre alcuni casi di cronaca nera famosi e non. Qual è, secondo lei, il motivo per cui alcuni casi diventano da prima pagina e altri no?
Ci sono due aspetti: uno buono e uno no. Quello buono è che i delitti che si impongono ci ispirano delle domande a cui noi non sappiamo rispondere e che ci colpiscono nel profondo. Può una madre uccidere un figlio? Può un amico uccidere un amico? E un uomo essere così violento, stupidamente e orribilmente violento, nei confronti della donna che dice di amare? Possono dei figli uccidere dei genitori? E questo è l’aspetto nobile perché ognuno di noi si rivede in queste situazioni e si interroga. Poi c’è l’aspetto ignobile che è quello della speculazione: quanto guadagno in termini di consenso schierandomi in questo delitto? Oppure: quanto guadagno io blogger o presentatore televisivo raccontando che sono tutti idioti e solo io sono il depositario della verità su quel delitto? O ancora, addirittura, il delitto ha un assassino che non mi convince, come sarebbe meglio se l’assassino fosse quello che io ho in mente. Si pensi a quanti delitti commessi dal vicino di casa, dal parente o dall’amico e nell’immaginario si combatte per avere un assassino che viene da fuori, un extracomunitario, perché non accettiamo l’idea che sia uno «dei nostri».
In tutto questo la spettacolarizzazione dei mass media ha un ruolo importante.
Si, però spettacolo e giustizia procedono di pari passo da sempre. Quando il grande avvocato Lisia scriveva la sua orazione per il marito tradito e uxoricida, la gente si radunava e ascoltava estasiata. I processi hanno sempre affascinato: i parigini facevano la fila per assistere al processo del matricida Lacenaire, poeta e ladro, e siamo nel 1830 circa. Poi la televisione e i social media hanno amplificato questo fenomeno che però è storico, non l’abbiamo inventato noi. Più il fatto di sangue è efferato e più ci pone di fronte alla domande della domande: lì c’è il male, io ne sono estraneo? O c’è una parte di quel male anche dentro di me?
Lo stesso processo può diventare spettacolo, una forma teatrale.
Il processo è un’azione scenica in cui ci sono quattro personaggi obbligati: l’accusatore, chi si difende, chi giudica e il pubblico.
Romanzo Criminale diventerà un’opera lirica con le musiche e la direzione di Nicola Piovani, il libretto firmato da lei e la regia di Massimo Popolizio. Che cosa l’ha spinta ad accettare questa sfida?
In realtà non è che l’ho accettata, io e Carlo Fuortes (attuale sovrintendente della Fondazione del Maggio musicale fiorentino, ndr) ci stiamo pensando da anni e alla fine, grazie a Nicola Piovani e a Massimo Popolizio, si sono create le condizioni per poterci arrivare. Da quando mi sono innamorato dell’opera lirica, ho provato il fascino di questa forma espressiva totale e questo è un modo di far rivivere il flusso emozionale che c’è in Romanzo criminale. Sarà ovviamente diversa dal romanzo, dalla serie, da tutto, perché la lirica esige il rispetto del suo linguaggio. È una sfida, ma a me piacciono le sfide.
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