Noi e loro
Cosa fareste se vostro figlio adolescente si avvicinasse a movimenti estremisti, violenti e razzisti? Voi che per tutta la sua vita gli avete impartito insegnamenti di tolleranza e solidarietà? È la situazione in cui si trova Pierre, un padre di due figli, vedovo, nonché protagonista del film Noi e loro (The quiet son - Jouer avec le feu), al cinema dal 27 febbraio. Presentato lo scorso settembre in anteprima mondiale alla 81^ Mostra del Cinema di Venezia, e premiato con la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile al protagonista Vincent Lindon, questo dramma familiare ispirato al pluripremiato romanzo Quello che serve di notte di Laurent Petitmangin (edito in Italia da Mondadori) accende i riflettori su temi e problematiche in cui tutti bene o male ci troviamo coinvolti. In primis quel divario tra generazioni e quel gap comunicativo che stanno alla base di tante tensioni dentro e fuori la famiglia. Ne abbiamo parlato con le registe della pellicola Muriel e Delphine Coulin.
Msa. Come è nato questo film? La situazione politica francese ha fornito qualche spunto?
Coulin. La realtà politica della Francia ha contribuito e si è integrata con la storia narrata nel libro Quello che serve di notte di Laurent Petitmangin. Ovvero la vicenda di un padre proveniente da una tradizione di sinistra che scopre la vicinanza del proprio figlio all’estrema destra. L’argomento ci interessava molto, anche perché la situazione descritta ci è sembrata abbastanza simile a quella in cui versava il nostro Paese (il riferimento è all’ascesa dell’estrema destra, ndr). Inoltre nel film emergono delle domande che bloccano il padre-protagonista e lo fanno sentire impotente: come posso trasmettere i miei valori di genitore ai figli? Ho educato mio figlio per vent’anni e nulla di ciò che gli ho trasmesso gli è entrato in testa: cosa è andato storto?
Il film è universale e personale nel contempo, perché racconta uno spaccato di vita familiare in cui tutti potremmo immedesimarci. Come siete riuscite a creare questa situazione di normalità anormale?
Creando dei personaggi complessi che non sono né perfetti né orribili, ma che hanno qualità e difetti. E questo dipende dagli attori, dalla loro capacità di farci avvicinare e provare empatia. Se lo spettatore prova empatia, significa che il film ha una propria vita in cui è possibile identificarsi.
Nel lungometraggio emerge un divario tra generazioni, come se padre e figlio viaggiassero su due linee parallele. In che modo, secondo voi, si può accorciare questa distanza?
L’unico modo per colmare questa distanza è il dialogo tra generazioni, ma anche tra persone e, nello specifico, tra fratelli. Con il dialogo, tutti i non detti e i litigi del film si sarebbero evitati. Fondamentale, poi, è anche un senso di avvicinamento, di prossimità – in termini di parole e spazi –. Il ragazzo della storia, infatti, continua a isolarsi, non vuole e non può accettare ciò che è in disaccordo con le sue idee. E questo allontanamento lo porterà a essere chiuso in una cella.
Abbiamo parlato di dialogo, ma questo è anche un film pieno di silenzi. Cosa rappresenta per voi il silenzio?
Abbiamo lavorato molto sul silenzio, ma in maniera evolutiva, nel senso che il silenzio non è sempre negativo. Ad esempio, nella prima scena del film, quando padre e figlio sono nell’automobile e non si parlano, in quel caso si tratta di un silenzio di complicità e non di disagio. In un secondo tempo, invece, il silenzio diventa indice di incomprensione e, verso la fine, segno di ostilità.
Qual è stata la sfida più difficile che avete dovuto affrontare durante le riprese del film?
Essere giuste e corrette nella nostra proposta e raccontare temi difficili in maniera complessa. Perché quando si parla di politica è facile cadere nella caricatura, nel tutto bianco o tutto nero, mentre noi volevamo mostrare ogni aspetto di questa dialettica, affinché l’opposizione padre-figlio risultasse ricca e interessante.
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