Non sparate sulla Flotilla
Nella notte tra il 23 e il 24 settembre hanno colpito la Global Sumud Flotilla, una cinquantina di piccole imbarcazioni a vela con 500 civili provenienti da 44 Paesi del mondo, partita alla volta di Gaza all’inizio di settembre per forzare l’assedio Israeliano e portare aiuti alla popolazione, stremata dalla fame e dai bombardamenti. Nel cuore della notte è iniziato un attacco di droni, con lancio di oggetti, bombe sonore e spray urticanti, in acque internazionali, a largo di Creta, a 600 miglia da Gaza.
Al momento non è chiaro chi sia stato, tuttavia si sapeva in partenza che gli israeliani avrebbero fatto di tutto per fermare le barche, come peraltro era già successo in precedenti spedizioni, e che difficilmente gli attivisti avrebbero potuto consegnare i viveri ai disperati in balia di un esercito potentissimo. Però lo stesso, si è deciso di andare, quasi fosse un imperativo categorico, un’esigenza collettiva, con la folla ai moli che salutava le barche sentendosi finalmente parte di qualcosa di più grande, di più umano.
Politici e opinionisti li hanno presi per ingenui, quelli della Flotilla, alcuni hanno politicizzato al massimo la spedizione, riducendola solo a uno scontro tra destra e sinistra, altri hanno continuato a sottolineare mancanze e contraddizioni, allo scopo di screditarla. Di più c’è chi la crede un regalo ad Hamas, peggio un’iniziativa dei terroristi autori del massacro del 7 ottobre, che ha provocato la morte atroce di oltre 1200 israeliani e la cattura di ostaggi, 47 dei quali ancora nelle mani dei terroristi, che tanta sofferenza sta provocando alle famiglie. Un polverone di critiche sull’efficacia, sulle intenzioni e sul merito della Flotilla che ha coperto però il risvolto umano e antropologico potente che c’è sotto questa fragile spedizione.
Se si scava appena oltre la superficie, si scopre che l’angoscia più grande della società civile è un enorme baratro di solitudine. La politica per prima ci ha lasciato orfani di fronte a sfide epocali. Ci ha abbandonato nel caos della violenza e della propaganda, non ha saputo difendere i nostri valori guida, non è stata in grado di prendere iniziative di pace efficaci, non si è esposta per stare dalla parte dei più deboli a prescindere dai meri interessi economici e geopolitici, ha balbettato di fronte all’arroganza dei più forti. Anzi in un certo senso ha lasciato che fosse: d’improvviso è diventato più normale invadere o attaccare territori altrui, usare la fame come arma, immaginare paradisi immobiliari sulle rovine di Gaza, esibire un linguaggio d’odio che disumanizza l’avversario. Un capovolgimento dei valori, di fronte al quale nessuna autorità nazionale, europea o mondiale è stata in grado di mettere paletti adeguati, usare parole credibili, pensare pensieri di pace. Uno scollamento tra la gente e i potenti mai così profondo e pericoloso.
E così ci siamo trovati soli a mettere sulla bilancia due dolori enormi, quello degli israeliani e quello dei palestinesi; noi comuni mortali a cercare di capire che cosa era giusto e che cosa era sbagliato, non nel senso geopolitico, né nel senso economico, ma nel senso umano. Una responsabilità enorme, che all’inizio ci ha schiacciati. Siamo rimasti soli ad assistere allo sterminio di Gaza, al grido di dolore dei bambini che assomigliano troppo ai nostri figli e ai nostri nipoti, scomodi sui nostri divani, angosciati dai nostri piatti pieni di cibo, con il senso di dover fare qualcosa di fronte a fatti che diventeranno – già lo sappiamo – una pagina nera nei libri di storia delle generazioni che verranno.
Pian piano è cresciuta l’indignazione, sono cresciuti i cortei, le proteste, i post sui social, le prese di posizione di gente comune e personaggi famosi. La Flotilla all’orizzonte, a torto o a ragione, è apparsa come l’occasione tanto attesa di fare qualcosa di più grande, di più concreto: attaccare l’assedio, gettare un ponte con i disperati. Affermare anche con il corpo, con la presenza, con l’accettazione del rischio che siamo con loro. E così l’equipaggio della Flotilla oggi è un’enorme ciurma di terra, in Italia e nel mondo. Un grande segno di speranza, di partecipazione, di umanità, di energia che andrebbe valorizzato e incanalato dalla politica per il bene comune.
È per questo che un attacco a loro è molto di più di un attacco a una spedizione umanitaria. È un attacco a uno dei pochi modi che abbiamo come società civile di far sentire la nostra presenza oltre che la nostra voce. L’unico modo per dire a chi verrà dopo di noi: sì, al tempo di Gaza assediata, noi purtroppo c’eravamo ma non abbiamo accettato di svendere la nostra umanità.
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