Pensa a ciò che dici
Noi e le parole che usiamo. Le pronunciamo nei modi più diversi. Possono essere delicate e favorire la vita, come la pioggia. Possono essere violente e annichilire chi le riceve, pesanti come la grandine. A volte il loro «sapore» è scontato. Se nei confronti di una persona provo affetto e nutro stima, allora le parole che dico saranno rispettose, costruttive, amichevoli. Se invece, istintivamente, sono mosso da sentimenti di antipatia, ribellione e insofferenza o se addirittura sono trascinato dall’impeto della ripicca, in tal caso le mie parole rischiano fortemente di essere distruttive. Glaciali chicchi di grandine.
Il punto è che, nella stragrande maggioranza dei casi, noi non ci troviamo in una posizione così chiara e definita: di benevola amicizia o, all’opposto, di accesa ostilità. Per lo più entriamo in rapporto con gli altri abitando in territori esistenziali ibridi, portando con noi forze contraddittorie, motivazioni confuse, stanchezze e timori inconsapevoli. Per cui rischiamo di rispondere male proprio alle persone che amiamo di più, come gli amici o i nostri familiari. Oppure ci ritroviamo a dialogare esibendo mille sorrisi con persone che non hanno alcun legame affettivo con noi, che forse temiamo o rispetto alle quali ci sentiamo nel dovere di mantenere l’apparato della benevolenza, o semplicemente della buona educazione.
Insomma: non è così scontata la qualità delle parole che escono dalle nostre labbra. Spesso sono perle di condivisione che allargano l’orizzonte della nostra esistenza, donando gioia, linfa nuova, esattamente come fa la pioggia quando cade sul terreno arido. In altri casi le nostre parole sono invece pietre appuntite che si conficcano nel cuore degli altri generando ferite amare, ammaccando dolorosamente l’anima, come fa la grandine. Tutta l’ambivalenza delle nostre parole emerge, ad esempio, quando nascono da questa dichiarazione: «Io sono una persona sincera e dunque dico ciò che penso». La motivazione è buona: il desiderio di essere sinceri. L’esito è, assai di frequente, nefasto: in nome della «sincerità» si pronunciano giudizi, accuse, espressioni di svalutazione che lasciano l’altro senza fiato. È il caso in cui la cosiddetta sincerità fa terra bruciata attorno a una persona, impedendole di vivere, di fiorire. Schiacciata sotto montagne di grandine.
Bisogna dunque fingere? Fare finta di niente e rinunciare alla sincerità? Nemmeno questa pare essere una buona strategia. Ci ritroveremmo a recitare facendo sorrisi a destra e a sinistra senza senso. Potremmo però essere responsabili, fare tesoro della nostra intelligenza e domandarci: che cosa intendo ottenere con le mie parole? Qual è la mia più vera intenzione? Ferire o far vivere? Banalmente, se vogliamo, potremmo invertire i termini dell’intento: non «dire ciò che si pensa»; ma «pensare a ciò che si dice». Non si tratta di stare zitti, d’insabbiare tutto. Si tratta piuttosto di essere meno impulsivi nella nostra capacità di parlare. Imparare a dire cose che abbiano a cuore la vita.
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