Neet, il limbo di una generazione
Neet. A pronunciarlo suona molto di tecnologico, quasi fosse un umanoide uscito da un romanzo di Isaac Asimov o da un film della saga di Guerre stellari. Invece Neet è il crudo acronimo inglese di Not (engaged) in education, employment or training: sono i giovani disoccupati e inoccupati (in cerca di lavoro) e gli inattivi. Un fenomeno planetario che investe un segmento della popolazione giovanile di età compresa essenzialmente tra i 15 e i 24 anni (ma, in realtà, si estende fino a 34 anni), e sul quale non fa sconti il rapporto Society at a Glance 2016 elaborato dall’Ocse: l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico di cui fanno parte, tra numerosi Paesi del mondo, anche quasi tutti quelli dell’Europa orientale e centrale, Italia compresa.
Sono 40 milioni i Neet nei Paesi dell’area Ocse per i quali la prospettiva di un inserimento sociale rimane lontana. Di questi, quasi 2 milioni e 350 mila sono italiani – primato europeo tutt’altro che invidiabile –: 589 mila risultano inattivi, 998 mila disoccupati e 762 mila costituiscono una potenziale forza lavoro che, però, non è occupata. Il 10 per cento dei Neet è laureato, il 50 per cento ha un diploma di scuola media superiore, e il 40 per cento la licenza media.
Il più alto tasso di disoccupazione si registra tra i 15 e i 29 anni. E chi lavora, lo fa spesso con contratti precari. Tra il 2005 e il 2015, la percentuale di Neet italiani è aumentata di 10 punti, in misura superiore rispetto agli altri Paesi Ocse. La loro marginalizzazione non solo li tiene lontani dal mercato del lavoro, ma rischia anche di renderli facile preda di movimenti estremisti in grado di fomentare le loro frustrazioni.
Imputata principale di questa situazione resta la crisi economica dell’ultimo decennio che ha acuito il problema. Dal 2008, l’Italia ha subito un calo di 12 punti percentuali di chi, tra i 25 e i 29 anni d’età, ha un lavoro. Come dire che una generazione sta a casa a rigirarsi i pollici.
Il 40 per cento degli intervistati dai ricercatori dell’Ocse attribuisce la condizione di Neet a questioni personali e alle scarse opportunità di lavoro, il 30 per cento alla società e alla crisi economica, il 21 per cento ai limiti formativi della scuola, e l’8 per cento alla famiglia che non saprebbe ascoltarli. Trovare un’occupazione resta l’elemento discriminante. E l’attuale congiuntura economica non aiuta, visto che il 60 per cento dei Neet non cerca più un lavoro.
I dati dell’Ocse ci dicono che a essere penalizzati sono soprattutto i giovani con una bassa scolarizzazione. Tra questi, è elevato anche il livello di abbandono scolastico. Così, a venire meno è la fiducia nella società d’appartenenza. Gli italiani ne hanno poca sia negli altri che nelle istituzioni, toccando così i livelli più bassi nella media Ocse. Ai giovani, nemmeno l’Università pare così attraente in una prospettiva di inserimento nel mondo del lavoro.
Tutti questi fattori producono una ricaduta negativa sulla crescita personale e sociale dei giovani. Il lavoro, infatti, non ha solo una valenza economica. Significa anche emancipazione dalla famiglia, autonomia e responsabilità. Nei Paesi del Nord Europa, i giovani escono di casa anche a 20 anni. In Italia, abbondantemente oltre i 30 anni, perfino dopo greci, spagnoli e portoghesi: cittadini di Paesi pur sempre investiti, come l’Italia, dalla crisi economica. Mentre il 75 per cento dei Neet italiani vive ancora con mamma e papà.
Lo spettro che agita l’Italia e l’Europa è quello di una generazione perduta, di giovani europei senza futuro e di un futuro europeo senza giovani. Ma attenzione a creare una divisione in caste. I Neet non vanno demonizzati. Anzi, pur rappresentando, da un lato, un problema sociale, costituiscono, dall’altro, un potenziale a cui va data la possibilità di esprimersi.
PricewaterhouseCoopers, network internazionale leader nei servizi professionali alle imprese, ha stimato questo potenziale umano in mille miliardi di dollari a livello mondiale. Ma come è possibile valorizzarlo? La ricetta giusta sembra quella della Germania che, alle spalle della Svizzera, è il Paese che offre più opportunità ai giovani. Berlino ha introdotto un modello didattico che fa perno sull’alternanza scuola-lavoro. Uno studente tedesco su due segue periodi di formazione direttamente in azienda. Una strada imboccata anche dall’Italia. Ma i risultati li vedremo – forse – solo tra qualche anno.