Venticinque anni dopo
«Ragazzi, qui dentro niente foto». Palermo, palazzo di giustizia. Sono le 8.30 di una mattina di giugno. La classe terza di un liceo romano sta per entrare in quello che, in breve tempo, è diventato una specie di luogo sacro. Il pellegrinaggio è continuo.
In meno di un anno sono state oltre 7.500, soprattutto giovani, studenti (da tutta Italia e anche da Francia, Spagna, Germania, Gran Bretagna e Usa) e famiglie, le persone che lo hanno visitato. Una volta dentro, solo silenzio. A tratti par quasi impastato con un odore di fumo che impregna sino al midollo questi muri.
«Ma guai a chiamarlo museo, sa di ammuffito e stantio. Questo, ragazzi, è il “bunkerino”», raccomanda il geloso custode delle tre stanze, neanche tanto grandi, dove nacque la prima grande offensiva contro la mafia.
Lui si chiama Giovanni Paparcuri. Sul volto, e non solo, le cicatrici del tritolo che, il 29 luglio 1983, uccise il consigliere istruttore Rocco Chinnici. «Ero il suo autista. Fui l’unico sopravvissuto».
A proposito di Falcone e Borsellino, con orgoglio racconta: «Mi piace considerarmi il loro “maestro”». «In che senso?» gli chiediamo. «Ho sempre amato l’informatica e avevo acquisito una certa esperienza tanto da inventarmi dei moduli eletronici per velocizzare le trascrizioni che all’epoca erano manuali. Al mio rientro, dopo l’attentato, i due giudici mi chiesero di informatizzare gli atti del maxiprocesso. Credo di avere ripagato la loro fiducia, continuando a dare un senso alla mia vita. Per questo mi posso permettere di dire che sono stato il loro “maestro”: ero l’unico a conoscere la password del pc del dottor Falcone che era AVANTI. Perciò continuo, nonostante tutto, ad andare avanti: per dare un significato simbolico a quella password. Per anni sono rimasto chiuso nel “bunkerino” del pool per microfilmare quasi 5 milioni di pagine. Non ho mai finito. Se si completasse il lavoro potrebbero uscire altre verità».
E siamo alla terza raccomandazione che Paparcuri rivolge ai ragazzi: «Quando chiedete di loro non chiamateli solo con il cognome, bensì dottor Falcone, dottor Borsellino. È un rispetto che dobbiamo a due grandi uomini e magistrati. Il no ai click? Qui dentro o si fanno foto o, se si vuole davvero capire, si spegne tutto».
Il «bunkerino» si trova al piano ammezzato del palazzo di giustizia. Le finestre danno su una specie di cunicolo di luce. Se guardi fuori non riesci a vedere il cielo.
I ragazzi osservano, ascoltano. Solo alla fine, fanno domande. In questi uffici, in cui Falcone e Borsellino vennero trasferiti per questioni di sicurezza, par davvero di stare in trincea. A decidere di farli rivivere, l’Associazione nazionale magistrati (Anm). «Tutto questo – spiega il presidente dell’Anm di Palermo Matteo Frasca – vuole essere un modo per ritrovare la sacralità di quei luoghi e renderli fruibili soprattutto per i più giovani». Il compito viene affidato a Paparcuri.
In pensione dal 2009, Giovanni custodisce gelosamente molti oggetti (posacenere, calendari, macchine da scrivere..), poi inizia a girare per uffici e archivi e recupera il resto. Così sul tavolo di Falcone, insieme agli appunti scritti rigorosamente con la stilografica, si possono ritrovare gli atti giudiziari, l’ultimo pacchetto di sigari toscani e alcune papere della sua famosa collezione.
«“Paoloooo”, par ancora di sentire la voce del dottor Falcone – racconta con emozione Giovanni –. Borsellino gli faceva scherzi di continuo. Spesso gli nascondeva proprio una delle sue amate papere, lasciandogli un biglietto: “Se vuoi rivederla viva, cinquemila lire mi devi dare”. Mi pare ancora di sentire le loro risate, le loro battute».
I ragazzi iniziano a far domande. Chiedono soprattutto degli aspetti personali, vogliono conoscere il lato umano. «In effetti, oltre a spiegare il “metodo” Falcone e Borsellino, cerco di raccontare, con episodi e aneddoti, momenti di vita ordinaria anche se di fatto non lo era. È l’aspetto meno conosciuto, ma anche il più vero».
Così, anche un luogo come il palazzo di giustizia acquista la sua anima: sta racchiusa proprio qui, in queste tre stanze che, come giustamente sottolinea Paparcuri, sono tornate a rivivere, proprio come 25 anni fa.
Ma perché dedicarsi alla restituzione della storia? «Per non perdere la memoria di ciò che è stato, forse per superare la mia sofferenza. E anche per altri due motivi: innanzitutto perché il primo a credere nel dialogo con i ragazzi è stato proprio il consigliere Chinnici; e poi per un aspetto legato al dottor Falcone. Rinunciò a fare il professore a contratto. Gli sarebbe piaciuto, ma quando l’Università glielo chiese, dovette rifiutare. Le sue lezioni, spiegò in una lettera, avrebbero messo a serio rischio l’incolumità degli studenti. Avrei dato la vita per entrambi. Sento questo incarico come un’eredità morale».
Lenzuoli bianchi Il 23 maggio 1992 l’assassinio di Falcone. Il 19 luglio quello di Borsellino. Sette giorni dopo, il 26 luglio, ad appena 17 anni, moriva Rita Atria, testimone di giustizia e «protetta» di Borsellino, simbolo della speranza di riscatto delle nuove generazioni dalla cultura mafiosa. Pochi giorni dopo la strage di Capaci, Palermo si ricoprì di bianco. Molti palermitani decisero di dichiarare apertamente la loro rabbia contro Cosa Nostra. Appesero alle loro finestre migliaia di lenzuoli bianchi.
«Il nostro più recente percorso di teatro civile prende spunto proprio da qui – spiega Giacomo Rossetto che, in Veneto, è l’anima, insieme con Anna Tringali, di Teatro Bresci –. Le prime rappresentazioni a luglio 2017. Avevamo già portato in scena altre storie, come quella di Ilaria Alpi o Malabrenta, che abbiamo poi replicato in decine di scuole.
L’idea di Lenzuoli bianchi ci è venuta stando con i ragazzi. A fine spettacolo volevano sapere, comprendere. Le nuove generazioni conoscono poco di questa pagina di storia, ma ne percepiscono l’importanza. E desiderano approfondirla per capire. Così abbiamo deciso di realizzare due spettacoli: il primo intitolato Borsellino (la prima il 24 luglio); il secondo, la prima il 26 luglio, A’ picciridda (così la chiamava il padre, capo mafioso), su Rita Atria, figura meno conosciuta, ma che colpisce per la radicalità della scelta presa in così giovane età, e per il fatto che sia maturata nonostante lei fosse cresciuta in una famiglia mafiosa».
Il progetto Lenzuoli bianchi/Otto giorni tra Paolo e Rita – dal 19 al 26 luglio a Limena (PD), con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e il patrocinio del Comune – propone varie iniziative, «per tener vivo il ricordo di Paolo e Rita, ma anche per essere spunto di confronto, conoscenza, coesione e scambio attorno a un tema come quello della lotta alla mafia, di cui entrambi sono simbolo. Rita diceva spesso che “la mafia siamo noi”: solo creando occasioni sane di partecipazione attiva e di incontro potremmo dimostrare che “noi possiamo essere tutt’altro”».
L’articolo completo è disponibile nel numero di luglio-agosto 2017 della rivista e nella versione digitale.