13 giugno, Kossovo
Qualche anno fa, a Gjakovë, cittadina dell’Occidente kosovaro, il padre guardiano del convento francescano mi mise sull’avviso: «Attento, la guerra non è finita. Non è finita nella testa, nei cuori, nella memoria della gente. Ancora non siamo in Europa, ma noi siamo europei. Siamo uno dei cuori della civiltà europea». In quel viaggio cercavo, come giornalista del «Messaggero di sant’Antonio», le tracce, in terra balcanica, della devozione al Santo. E, come altrove nel mondo, le trovai. Don Lush Gjergji, allora vicario del vescovo, mi spiegò: «Sant’Antonio è il santo più amato». In un Paese in cui i musulmani sono oltre il 95%, i cattolici sono appena 70mila, poco più del 2% della popolazione. Quasi uguale il numero degli ortodossi. Nelle ultime settimane, nei giorni che precedono il 13 giugno, giorno sacro del Santo, cattolici e musulmani avranno affollato la grande chiesa di Pietro e Paolo a Gjakovë. Le loro preghiere come un’invocazione di pace. E il Kossovo ne ha bisogno.
Ventiquattro anni fa, proprio in questi stessi giorni, finiva l’ultima delle guerre che avevano dissolto la Jugoslavia. Guerra feroce, 800mila albanesi kosovari in fuga, tredicimila vittime, in gran parte civili albanesi, migliaia di scomparsi, 78 giorni di bombe Nato. E, alla fine, trentamila soldati Nato per garantire una tregua. Vi fu il controesodo della minoranza serba, centomila persone che oggi vivono, in maggioranza, in quattro province del Nord del Paese. No, non è vero che la guerra di Ucraina è stata la prima in Europa dopo il conflitto mondiale.
Indipendente dal 2008, il Kossovo è riconosciuto da 101 stati su 193. Tra di loro non ci sono Russia e Cina. Neppure Spagna, Cipro, Romania, Slovacchia e Grecia. A fine maggio, è scoppiata l’ultima tensione tra le comunità serbe e albanesi: i serbi delle province del Nord hanno disertato le elezioni amministrative, ha votato meno del 4% della popolazione, e hanno vinto, ovviamente, i candidati albanesi. Che hanno cercato di insediarsi comunque tra le proteste serbe. È stata di nuovo battaglia: decine e decine di feriti negli scontri di fronte al municipio di Zvecan, tra di loro quattordici alpini italiani delle forze Nato. È stato come un nuovo fiammifero gettato sulla benzina. A un passo dall’osceno conflitto in Ucraina. Come disinnescare questa tensione?
Non credo di aver capito nulla nei miei giorni in Kossovo. Fino a quando Pristina e Belgrado non si riconosceranno reciprocamente, ogni intesa sarà impossibile. Eppure io ricordo che, come benvenuto, al convento di Pietro e Paolo, fra Antonio Kajtazi mi offrì un bicchiere di raki, acquavite balcanica, forte e buona. Ricordo la pace ascetica al monastero ortodosso di Dečani (grafia serba, un albanese avrebbe scritto Deçan): mi accolsero con caffè e limonata. Nelle tekije, luoghi di preghiera e ospitalità dell’Islam sufi di Gjakovë, venni accolto con un bicchier d’acqua e biscotti al cioccolato. È così difficile la pace?
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