Abbastanza italiana, abbastanza straniera
A differenza di altri stati-nazione europei, per fortuna l’Italia non ha avuto un passato colonialista così lungo da generare un altrove culturalmente simile di cui doversi poi prendere la responsabilità per tutti gli anni a venire. Da un lato è un bene, ma non ne abbiamo alcun merito morale: dipende solo dal fatto che a fare gli imperialisti ci abbiamo provato fuori tempo massimo. Dall’altro lato, però, questo mancato abuso rappresenta oggi una marcia culturale in meno rispetto a Paesi come il Regno Unito, la Francia, il Portogallo e la Spagna, perché alle nostre porte non bussano persone che parlano la nostra lingua, pur provenendo da geografie, etnie e culture diverse. Chi arriva ai confini italiani è davvero «straniero» e deve cominciare da capo, letteralmente dall’abc, per cercare di entrare in comunicazione con un popolo che si vanta ancora santo e navigatore, ma alla prova dell’incontro si rivela troppo spesso chiuso e maledicente verso le differenze.
La legge non aiuta l’incontro nemmeno con chi in Italia ci è nato: la persistenza dello ius sanguinis, che riconosce come italiano solo chi ha genitori italiani, mantiene il paradosso di considerare stranieri bambini nati e cresciuti nei confini italiani e di offrire invece i diritti di cittadinanza a persone che, con genitori o nonni italiani, sono però diventate adulte dall’altra parte del mondo, dentro altre culture. Neanche l’affermazione dello ius soli, che assegna la cittadinanza in base al luogo di nascita, risolverebbe davvero questa ingiustizia, perché in un mondo davvero equo dovrebbe essere la volontà dei singoli a determinare a che comunità appartengono, non la causalità del sangue o del suolo. C’è però un’intellettuale che lo ius voluntatis è riuscita a farlo valere, se non per tutti almeno per se stessa, e nel farlo ha regalato a questo Paese una chiave di osservazione della propria realtà multietnica che nessun italiano avrebbe mai potuto avere, di qualunque nazionalità fossero i suoi genitori e su qualunque suolo avesse visto la luce.
L’intellettuale in questione è Jhumpa Lahiri, indiana per ascendenza familiare, statunitense per cittadinanza e cultura, ma da un certo punto in poi della sua vita anche italiana per scelta. Lahiri è una delle scrittrici più importanti del mondo – premio Pulitzer e docente universitaria nelle più prestigiose università degli Stati Uniti – e la storia del suo incontro con l’Italia ha connotazioni che non esiteremmo a definire amore, se stessimo parlando del rapporto tra due persone. Affascinata soprattutto dalla lingua e dalla letteratura, Lahiri ha deciso di stabilire con l’Italia un rapporto di confidenza che non ha niente a che vedere con la simpatia turistica, ma nasce da una radicale volontà di appartenenza. Per questo ha dedicato anni a studiare l’italiano e lo ha fatto proprio fino a poterci scrivere dei libri che per potenza espressiva non hanno nulla da invidiare a quelli per cui con l’inglese ha ricevuto i più importanti riconoscimenti della sua carriera.
La sintesi di questo percorso, cominciato ormai più di vent’anni fa con il suo dottorato in studi rinascimentali, si chiama Racconti romani (Guanda) e, a dispetto del titolo sommesso, è un testo narrativo di enorme forza politica, uscito proprio mentre era in corso la campagna elettorale che avrebbe portato al governo la maggioranza più legata di sempre alla retorica dell’italianità come identità immutabile e dello straniero come soggetto da cui difendersi. Il libro ha un impianto apparentemente semplice: sono racconti di vita quotidiana ambientati nella città di Roma, quasi tutti nel quartiere di Trastevere, che Lahiri conosce bene perché ci vive almeno metà dell’anno da quasi due decenni. Hanno però in comune la stessa particolarità: i protagonisti e le protagoniste sono persone di provenienza non specificata e gli spaccati delle loro esistenze arrivano attraverso i loro stessi sguardi, che in modo millimetrico spostano di racconto in racconto il significato della parola «noi». Sono episodi minimi, quasi banali, come quello di due amiche borghesi che passano il pomeriggio insieme e una non si accorge che l’altra non è trattata allo stesso modo nel bar in cui prendono da bere. Il linguaggio non assume accenti drammatici neanche quando è dramma quel che raccontano, come quello di un uomo che fino a pochi mesi prima aveva una casa luminosa, un lavoro e una vita normale con sua moglie e di colpo si ritrova solo e per strada perché la crisi colpisce prima le persone che sembrano non appartenere abbastanza.
Non ci sono nomi propri in questo libro, perché le paure, le speranze e le delusioni che rivela potrebbero averne mille in altrettante lingue e sarebbero tutti veri. Leggerlo, al di là del piacere per l’eccezionale maestria che serve a scrivere quella cosa difficilissima che sono i racconti, lascia in bocca un senso profondo di vergogna, perché Lahiri con la letteratura dice quello che nessun italiano ammetterebbe mai di sé e nessuno straniero svantaggiato dalla discriminazione potrebbe raccontare con quella freddezza linguistica. Per farlo ci voleva il talento di qualcuna che è arrivata qui per scelta e ha deciso di rimanere per amore, abbastanza italiana per amare il particolare, abbastanza straniera per non perdonare niente all’insieme.
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