Abbi cura della fragilità

Cosa s’intende per fragilità? Perché dopo due anni di pandemia, che ci hanno sbattuto in faccia il nostro limite, non siamo ancora venuti a patti con questa condizione?
15 Aprile 2022 | di

Alla fragilità non si può scampare, perché essa è legata a doppio filo alla condizione umana, alla nostra finitudine. Eppure, nonostante veniamo da due anni di pandemia, che ci hanno sbattuto brutalmente in faccia che siamo talmente fragili che le nostre esistenze e il nostro modo di vivere possono venire messi in crisi anche da un microscopico virus, ancora non siamo venuti a patti con questa realtà. O meglio: l’antico patto si è perso, quando, in nome delle scoperte scientifiche e mediche dell’ultimo secolo, abbiamo pensato di poter controllare tutto, guarire tutto, spiegare tutto. Ma c’è qualcosa che non si può comprendere fino in fondo, che sfugge alla nostra razionalità, e questo qualcosa è proprio la comune condizione mortale, la finitudine nostra e di ciò che ci circonda. In una sola parola: la nostra fragilità.

Ma di che cosa parliamo quando parliamo di fragilità? «Fragile – scrive fratel Luciano Manicardi, monaco di Bose, nel suo volume Fragilità – è ciò che si può spezzare, in modo improvviso o a seguito di un lento processo di usura, di erosione, per cause esterne o interne». E la fragilità si può distinguere in una miriade di specie: «fragilità psicologiche e fisiche, handicap e menomazioni, fragilità morali e intellettuali, ma poi fragilità inerenti alle diverse età della vita». Ci sono anche le fragilità sociali, «come la difficoltà di trovare un lavoro o il dramma di perderlo», e quelle ambientali, di cui continuiamo a non tenere conto distruggendo il pianeta.

Accade di frequente che la fragilità fisica trovi una sorta di giustificazione. Non così invece per la fragilità psicologica, che spesso viene confusa tout court con una patologia, mentre quest’ultima ne è solo uno dei possibili volti. Ma siamo proprio certi che la fragilità sia solo immagine di debolezza insignificante, immatura, in fondo malata, destituita di senso, o invece in essa non si nascondano valori di delicatezza e di sensibilità, di gentilezza e di comunione con gli stati d’animo e con le emozioni?

Le emozioni cosiddette «fragili», in fondo, sono le più diffuse e le più importanti: tristezza e timidezza, delicatezza e inquietudine, gioia e letizia, amicizia e compassione, gentilezza e mansuetudine, mitezza e tenerezza. «Se non fossero fragili, tali emozioni perderebbero la loro significazione umana e il loro fulgore espressivo. Sono fragili, appunto, perché si scheggiano e si frantumano facilmente, non resistono all’avanzata dei ghiacciai della indifferenza, delle tecnologie trionfanti e degli idoli consumistici, e per questo devono essere custodite con pazienza e con grande attenzione. Le emozioni fragili hanno in sé le stimmate lucenti e dolorose della umanità ferita, ed è questo a renderle così delicate. Non dovremmo mai dimenticarlo».

A dirlo, Eugenio Borgna, primario emerito di psichiatria dell’ospedale Maggiore di Novara, nonché uno degli esponenti italiani di punta della psichiatria fenomenologica, autore del volume La fragilità che è in noi (Einaudi). «Le esperienze, che la psichiatria mi ha consentito di fare – continua – non possono non farmi dire subito che la fragilità fa parte della vita e ci aiuta a coglierne significati dei quali non si dovrebbe fare a meno. La fragilità è una esperienza umana che imprime alle cose che vengono fatte, alle parole che vengono dette, il sigillo dell’accoglienza e della delicatezza, dell’ascolto e della comprensione. La fragilità ci consente di sfuggire al deserto dell’egoismo e dell’indifferenza e anche dell’aggressività. Non solo: essa ridesta in noi il desiderio di uscire dal proprio io e ci aiuta a vivere la vita come destino comune a ciascuno di noi nella gioia e nel dolore».

Ma se fragilità è tutto questo, che cosa c’è che ci impedisce di accoglierla in noi stessi e in chi ci è accanto? «In effetti – continua il professor Borgna – la fragilità è abitualmente considerata come una esperienza di vita dalla quale allontanarsi e della quale ci si vergogna, non volendone parlare, come se fosse una malattia psichica. Non lo è, ma grande è l’importanza di riflettere su questo tema, tenendo presenti le considerazioni che sto svolgendo e che rinascono dalla mia vita in dialogo continuo con la sofferenza, e in particolare con la sofferenza psichica, così ingiustamente negata nella sua sensibilità».

«Ma dovremmo essere tutti chiamati a riconoscere e a rispettare le fragilità che si nascondono nelle sensibilità ferite dalla timidezza e dallo smarrimento, dal dolore dell’anima e dal silenzio. Sono umane fragilità che ci passano accanto nella vita di ogni giorno con le loro scie di solitudini. Sono fragilità che gridano nel silenzio e che sono udite solo quando in noi ci siano attenzione e delicatezza. Riconoscere le fragilità che vivono segrete nel cuore delle persone è ancora più importante del riconoscere le nostre fragilità».

«Ma la fragilità ci inquieta anche perché fa riflettere sul senso della vita, sulle relazioni che abbiamo con le persone che la vita ci fa incontrare. Ci mette a confronto con esperienze che vorremmo dimenticare e che essa fa rinascere, risvegliando in noi pensieri e azioni che non era giusto dimenticare. La fragilità ci porta così a fare un esame di coscienza sul senso delle nostre azioni e della nostra vita, ma questa è una cosa buona, perché può essere fonte di riflessione e di meditazione, di ascolto e di preghiera».

La fragilità come comunione

I poeti, forse perché abituati da sempre a esplorare i meandri più nascosti della natura umana, di fragilità hanno sempre scritto. Anche quando i loro versi erano intrisi dell’orrore della guerra. Com’è accaduto, per citare solo un esempio, a Giuseppe Ungaretti, che nella sua Fratelli, riconosceva proprio nella fragilità la caratteristica che più ci accomuna: «Di che reggimento siete / fratelli? / Parola tremante / nella notte. / Foglia appena nata / Nell’aria spasimante / involontaria rivolta / dell’uomo presente alla sua / fragilità. / Fratelli».

In effetti, continua il professor Borgna «è dalla conoscenza della fragilità che è in noi, e dalla conoscenza di quella che è in persone che ci sono familiari o che incontriamo nella nostra vita, che dovremmo imparare a essere gentili, e capaci di ascolto e di accoglienza. L’accettazione delle nostre fragilità (ci dovremmo preoccupare se non ne avessimo!) è di grande aiuto nel riconoscere quelle degli altri, immedesimandoci nella loro interiorità, nelle loro attese e nelle loro inquietudini dell’anima, nelle loro ansie e nelle loro disperazioni. La fragilità è come un grande ponte che ci consente di uscire dalla nostra solitudine e dal nostro isolamento, dalle nostre preoccupazioni e dai nostri egoismi».

In questo senso ci viene in aiuto un’altra importante caratteristica umana, l’empatia, una disposizione emozionale che ci fa sentire le sofferenze degli altri come se fossero nostre. «Sì, è l’empatia la premessa alla conoscenza degli altri, alla comprensione dei loro pensieri e delle loro emozioni, ma anche alla loro cura, quando siamo medici, e in particolare quando siamo psicologi, o psichiatri. Empatia non è simpatia: ci è possibile immedesimarci nel mondo interiore di una persona anche senza avere simpatia per lei, ma ovviamente la cosa migliore è la presenza dell’una e dell’altra».

«Per questo la fragilità che, come ha affermato un grande scrittore austriaco del secolo scorso, è la nemica mortale della violenza, ci dovrebbe insegnare a guardare dentro di noi, a seguire il cammino, che porta alla nostra interiorità, nella quale, come diceva sant’Agostino, abita la verità. Perché la fragilità ci insegna anche a dare importanza alle cose essenziali della vita, e a ricercare le parole e le azioni che siano di aiuto a noi stessi, certo, ma anche agli altri. Solo se cerchiamo di essere in relazione con gli altri e di trovare quello che ci unisce gli uni agli altri diamo un senso alla nostra vita. E per giungere a questa meta, così importante, ci sono molto di aiuto la delicatezza e la pazienza, la generosità e la tenerezza, emozioni che la fragilità ci fa più facilmente conoscere».

Fragilità, quindi, come luce interiore che ci fa scoprire lati luminosi e profondi, di noi stessi e degli altri. Ma la fragilità è anche ombra, oscurità. «Non dovremmo mai nemmeno dimenticare – conclude Eugenio Borgna – che la fragilità può anche essere sorgente di sofferenza e di tristezza, ma queste caratteristiche non vanno rifuggite, perché la rendono umana e bisognosa di aiuto. Abbiamo le risorse per accogliere anche questo volto della fragilità. Quando ci accorgiamo improvvisamente di essere divenuti fragili, come conseguenza di dolori e di ansie, di tristezze e di malattie, sapremo infatti affrontare bene tutto ciò se in noi ci sono la fede e la speranza, la preghiera e la meditazione, che sono così importanti in ogni circostanza della vita».

«Certo, talora le fragilità improvvise hanno bisogno di assistenza spirituale, ma anche di assistenza psicologica o semplicemente umana. La cosa più importante è allora quella di ascoltare, di dimostrare la nostra presenza amica e la nostra partecipazione al dolore, con parole gentili, sincere e prudenti, che nascano dal cuore e non dalla freddezza della ragione. In questo compito riescono di solito molto bene le persone semplici, che hanno conosciuto la solitudine e il dolore dell’anima, e sanno quindi trovare le parole che fanno del bene. Anche un sorriso e un gesto, come quello di stringere con dolcezza una mano possono essere di aiuto».

La forza della fragilità

Nell’ambito spirituale, dunque, la fragilità perde le sue ombre. Ce lo ripetono, nella tradizione cristiana, le Scritture, nelle quali la fragilità emerge sempre come luogo per eccellenza del manifestarsi della grazia di Dio. San Paolo, nella Seconda Lettera ai Corinti, per esempio, afferma: «Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. [...] Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte». (2Cor, 12,9-10).

«La questione della fragilità – ribadisce padre Guidalberto Bormolini, religioso dei Ricostruttori nella preghiera, scrittore, antropologo e tanatologo – è centrale, perché essa è costitutivamente parte della nostra vita. Come ben ci ricorda la Genesi, è dopo la caduta che noi conosciamo fatica e dolore e che nella nostra vita entrano malattia e morte. Se non lo accettiamo, rischiamo una spaccatura tra una realtà inevitabile, che è appunto la fragilità, e l’illusione di un’eterna giovinezza. Eppure, mi pare di poter dire che vulnerabilità e fragilità non siano state recepite nemmeno durante la pandemia. Abbiamo voluto relegare questa esperienza a una sorta di eccezionalità; prova ne è l’utilizzo del linguaggio di guerra per descriverla. Ma la realtà è che le epidemie nella storia dell’umanità ci sono sempre state, anche se da qualche decennio pare che non vogliamo più ricordarcelo. Ed è per questo che oggi le persone stanno peggio, perché non riusciamo ad ammettere che fragilità, vulnerabilità, finitudine, sono costitutive di ciascuno di noi».

Ma se lo sono, dobbiamo allora cercarne il senso spirituale, perché nulla esiste al mondo senza un significato. «Il senso – riprende Bormolini – potremmo riassumerlo così: se noi non fossimo fragili e vulnerabili, se sentissimo di bastare a noi stessi, perderemmo fiducia nell’invisibile. La fragilità è un dono divino proprio perché ci impone di allargare lo sguardo e di guardare oltre. La fragilità è un dono che ci apre al mistero dell’invisibile, a quella parte di noi che non è fragile, non è mortale perché è quella scintilla divina che tutti abbiamo dentro. Se riusciamo, grazie alla fragilità, a orientare la nostra vita fino a identificarci con quella scintilla divina, allora essa diviene un dono che ci fa diventare a nostra volta divini».

Detta così pare facile. Ma, c’è un ma. Come passare dalla comprensione all’azione? In una sola parola: come possiamo apprendere il messaggio spirituale profondo della fragilità? «Abbiamo tantissime opportunità – risponde padre Bormolini –. Innanzitutto, il mondo culturale, anche quello che fa cultura divulgativa, come i giornali, dovrebbe occuparsi più spesso di fragilità e finitudine. E poi l’educazione. Questi temi dovrebbero venire inseriti nei curricula scolastici. Dovremmo insegnare ai bambini sin da piccoli che siamo mortali e fragili, e che se lo sono io lo è anche l’altro: da questa consapevolezza non solo nasce la compassione, ma nasce anche una vera e propria etica umana. Anche noi Chiesa dovremmo fare un’alleanza su questo tema, coinvolgendo anche i credenti di altre fedi. Dovremmo avere il coraggio di entrare in queste dimensioni e saper stare vicini alle persone colpite nella loro fragilità».

«Infine, c’è uno strumento principe per accogliere i limiti della nostra condizione umana ed è la preghiera silenziosa, profonda, quella meditazione che apparteneva alle origini della Chiesa e che la cristianità sta riscoprendo ora anche grazie all’intervento di papa Francesco. Nella meditazione cristiana il nostro corpo, che crediamo immortale, sta fermo come se fosse morto, la nostra mente, sempre agitata e irrequieta, sta ferma come se fosse morta, le parole cessano, come se fossimo morti e da questa situazione di morte apparente nasce in realtà la vita spirituale, perché la mente “scende”, si collega al cuore. È un’esperienza molto forte, nella quale sperimentiamo che “far morire” corpo e mente genera in realtà qualcosa di nuovo; che dare un limite, recepire la nostra fragilità, ci permette in realtà di entrare in un’altra dimensione di vita. La preghiera profonda e la meditazione fanno sperimentare il passaggio dalla fragilità umana all’abbandono all’onnipotenza divina».

A quanto fin qui detto qualcuno potrebbe opporre che la fragilità può essere anche molto dura da vivere, perché spesso porta con sé un dolore profondo, paura, lacrime e non solo teneri sorrisi. «Personalmente ritengo che servano sia le lacrime che i sorrisi – insiste Guidalberto Bormolini –. Non dobbiamo scandalizzarci del nostro pianto, perché le lacrime sono acqua che scorre, acqua viva. L’acqua che scorre irriga la vita e quindi può davvero irrigare il sorriso. La nostra vita è dolorosamente segnata dall’ignoranza: crediamo di sapere ma in realtà non è così. Non sappiamo che cosa sia la felicità e la scambiamo magari per una vacanza in un villaggio turistico. Non sappiamo che cosa sia l’amore e lo scambiamo per la rozzezza della pornografia. L’ignoranza ci butta fuori dalla vita. Quando noi invece scopriamo che è la nostra fragilità che ci apre al divino, al punto tale che è attraverso la fragilità che Dio ci ha liberati, certo che scatta il sorriso. Noi diciamo ad esempio: “Sono inchiodato in un letto”, mi sento impotente, ho perso la mia dignità, ma ci dimentichiamo che un altro essere inchiodato ha salvato il mondo».

Apice della fragilità umana è la morte, nostra e dei nostri cari. È ciò che più ci spaventa e per questo cerchiamo di allontanarne anche solo il pensiero in tutti i modi. Padre Bormolini con la morte ha una certa familiarità, invece, avendone fatto non solo oggetto di studio, ma dedicando molto del suo tempo all'accompagnamento delle persone morenti. «Questa è la questione centrale della nostra vita – sottolinea infatti –. Nella nostra società si tende a metterla in opposizione alla vita, ma è un errore. Ce lo insegna l’antropologia. Pensiamo alla cultura della iniziazione, antichissima, per cui un giovinetto deve passare attraverso un rito per diventare adulto. Chi ha studiato questi fenomeni ci dice che l’iniziazione è in realtà un processo simbolico di morte e rinascita, in cui il giovinetto è chiamato a morire alla sua infanzia per accedere all’età adulta. Dovremmo anche noi imparare esperienzialmente che la morte è datrice di vita, ha un grembo di vita. Non è in opposizione alla vita, è dentro».

«Osservare la natura ci aiuta a capirlo: il sole tramonta ma poi risorge, d’inverno le piante muoiono ma a primavera rigermogliano. Il grano morto diventa seme. Ma anche il vivere appieno la nostra vita ci aiuta. La morte ci terrorizza in relazione al tempo: quando ci rendiamo conto che il tempo è passato e ci rimane poco, ci angosciamo perché non abbiamo vissuto pienamente – e vivere è amare – perché non siamo stati felici – e la felicità è relazione d’amore non possesso di beni –. E allora arriviamo alla fine terrorizzati perché il tempo ci sta rapendo la vita. Ma invece il tempo non c’entra nulla con la vita, c’entra con la morte. Se io vivo fino in fondo tutta la beatitudine che la vita mi permette, la morte quando mi coglie mi coglie sazio, perché ho vissuto. Vivere è amare e pensare alla morte, la fragilità più estrema, ci aiuta a vivere e ad amare meglio, proprio perché sappiamo che il nostro tempo qui non è infinito. La morte, la vetta più alta della nostra umana vulnerabilità, la fragilità estrema, si accarezza da vivi non da morti».

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Data di aggiornamento: 17 Aprile 2022

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1 comments

22 Maggio 2022
Profonda riflessione che dà eco a pensieri che anch'io porto dentro.Grazie!
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di Gina ABBATE

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