Accanto alle vittime del fondamentalismo

Il progetto del 13 giugno a favore delle vittime degli attentati in Sri Lanka allevia le ferite di una comunità e aiuta a contrastare il fondamentalismo. L’emergenza covid-19 non ci faccia dimenticare gli altri rischi per il mondo.
10 Giugno 2020 | di

Un boato, improvviso e fortissimo. La statua di sant’Antonio esplode in mille pezzi. Intorno urla, schegge, schizzi di sangue, e l’immobilità assurda di chi ha perso la vita in un attimo. Se potessimo riportare il tempo a un secondo prima, vedremmo una folla orante, tante candele sottili accese dai fedeli e un tripudio di fiori colorati. È il 21 aprile 2019 ed è Pasqua. La chiesa di sant’Antonio in località Kotahena, a Colombo, in Sri Lanka, è gremita di famiglie con il vestito buono. È il giorno di festa più importante per la comunità cristiana. Il giorno in cui si celebra la Risurrezione di Cristo, la vita che vince sulla morte. Un secondo dopo, invece, succede l’assurdo: la morte vince sulla vita. Intere famiglie sono spazzate via proprio nel momento della preghiera e della fiducia. Un contrasto insanabile, una profanazione crudele, che può accendere un fuoco d’odio, una spirale di vendette in un periodo in cui le tensioni etniche e religiose sono sempre più forti.

A causa di quella tragedia, a migliaia di chilometri di distanza, noi frati abbiamo deciso di fare qualcosa, per aiutare la gente che soffre, ma anche per contribuire a combattere quel virus d’odio che fa delle religioni un campo di battaglia, per scopi politici e interessi particolari. Una chiamata a fare la nostra parte dovuta anche al forte legame che unisce la Basilica del Santo di Padova alla comunità cristiana srilankese, grazie alla grande devozione di questo popolo per sant’Antonio. Da anni ogni primo maggio le comunità srilankesi in Italia celebrano il loro pellegrinaggio antoniano (evento annullato quest’anno a causa della pandemia), riempiendo la Basilica di fiori e dei vividi colori dei costumi tradizionali del Paese. Una celebrazione che ha reso sempre più stretta l’amicizia tra i frati e il carismatico cardinale Albert Malcolm Ranjith, arcivescovo metropolita di Colombo.

Il viaggio

È per questo impegno che, alcuni mesi dopo gli attentati, mi trovo assieme a un gruppo di confratelli, tra cui fra Oliviero Svanera, rettore della Basilica del Santo, su un aereo per Colombo. Gli attentati hanno coinvolto tre chiese e alcuni alberghi, provocando 253 vittime e 500 feriti e sono stati rivendicati da un gruppo estremista islamico. Enormi le conseguenze sulla popolazione: persone senza casa, bambini orfani, disabili gravi e un tessuto sociale traumatizzato, che ha bisogno di segni concreti di speranza per non cedere alle provocazioni del fondamentalismo.

Il cardinale Ranjith ha già messo balsamo sulle ferite seguendo passo passo la comunità. Ha voluto conoscere le storie, seppellire i morti, benedire i corpi mutilati. Ha costruito attorno alle vittime una fitta rete di relazioni, ricordando ai suoi fedeli che la passione porta alla risurrezione e che un cristiano ha gli anticorpi per reagire all’odio. È giunto ora il tempo di passare dall’emergenza al futuro. Ed è per questo che ci sta aspettando.

La ruota del carrello dell’aereo tocca terra con uno scossone. Monsignor Neville Joe Perera, referente del cardinale, ci è venuto a prendere all’aeroporto per portarci all’arcivescovado. Fuori è caldo e umido. Nell’aria tanfo di benzina bruciata. I tuk tuk, i pittoreschi taxi a tre ruote comuni a molti Paesi asiatici, sfrecciano rumorosi nel traffico caotico. «Ce ne sono più di 200 mila in città, perché sono il principale mezzo di sostentamento per gli abitanti» spiega Neville. In Sri Lanka non si muore di fame, ma il divario tra i pochi ricchi e la maggioranza dei poveri è incolmabile.

Come una via crucis

Il viaggio entra nel vivo il giorno dopo il nostro arrivo, con un percorso che sembra una via crucis. Neville ci porta alla chiesa di San Sebastiano, dove c’è stato il maggior numero di vittime, 116 per la precisione. Ci accoglie il nuovo parroco, il vecchio non ha retto il peso della strage e ha chiesto il trasferimento. All’entrata ci guardiamo intorno in cerca delle tracce della tragedia. La chiesa è stata ricostruita, ma dietro una teca di vetro la statua di un Cristo risorto è punteggiata da chiazze di sangue e frammenti umani. Sulle pareti sono ancora visibili i buchi provocati dai pezzi metallici montati sulle bombe per renderle più letali. Fuori dalla chiesa, una pietra che rammenta quella del sepolcro di Cristo, riporta i nomi delle vittime. In alcuni casi le lettere dell’alfabeto singalese si ripetono rivelando componenti della stessa famiglia.

Poco lontano dalla chiesa, il cardinale ha comprato un terreno per seppellire le vittime: più che un cimitero è un luogo della memoria. Cammino tra le croci di cemento, su cui si stagliano le foto colorate degli scomparsi. Padri e madri vicino ai bambini. Susantha mi sta aspettando accanto alla tomba di sua moglie, 34 anni, e dei suoi tre figli di 14, 10 e 7 anni. D’improvviso le vittime delle statistiche diventano un volto e una storia. «Sono un taxista – racconta vincendo l’emozione –. Quel giorno ero a lavoro, avevo lavorato anche tutta la notte. Mia moglie aveva portato i bambini a Messa. Sono rientrato prima a causa di una crisi ipoglicemica, perché sono diabetico. Così volevo raggiungere i miei in chiesa.

Per strada ho sentito lo scoppio e ho iniziato a correre verso la chiesa. La gente era in panico, girava confusa, senza sapere che cosa fare. Ho varcato la soglia e c’erano molti corpi. Ho cominciato a cercare. Tra i detriti ho riconosciuto la gonna di mia moglie, gliel’avevo comprata per la Pasqua. Ho preso in braccio le mie figlie, ma erano morte. Mia moglie invece ancora respirava; su un tuk tuk l’ho portata all’ospedale più vicino. Non mi sono neppure accorto che una pallottola le aveva trafitto la testa e non c’era più scampo». È solo Susantha e senza casa, perché la suocera, padrona dell’abitazione, ha scaricato su di lui il dolore per la morte della figlia e dei nipoti e non vuole più vederlo. Lui vive nel suo taxi, accanto al cimitero.

Un’altra storia, un’altra tappa di dolore. La signora Thilina Harshani, l’unica superstite della famiglia, era in chiesa quella mattina. «Non ho sentito l’esplosione, mi sono ritrovata sopra una panca. All’inizio non ho capito, pensavo fosse un fulmine. Ho perso tutti, mio marito e le mie due figlie di 16 e 14 anni». Thilina era buddista e da quando si è convertita al cristianesimo frequenta assiduamente la chiesa: «L’eucaristia mi dà la forza di vivere e di continuare ad amare». All’interno la sua casa è spoglia. C’è solo qualche sedia. Su un angolo, per terra, spiccano alcune foto ingrandite, sovrastate da un altarino domestico con varie immagini sacre. Nelle foto, lei con il marito, poi con le figlie, poi tutti e quattro assieme quando le bambine erano piccole. È tutto quello che resta di una vita. Thilina è uscita dall’ospedale dopo il funerale dei suoi. Aveva una grave ferita alla testa. «La chiesa mi è stata molto vicina: Dio mi ha tolto e Dio mi ha dato». Uscendo, il parroco mi dice che i buddisti convertiti sono persone molto spirituali, con una capacità di affrontare il dolore molto superiore alla nostra. Ne resto ammirato.

Mi colpisce anche un’altra donna che incontro visitando un ospedale. La bomba le ha spezzato la spina dorsale. Grazie alla parrocchia è in cura giorno e notte. Ci accoglie con il sorriso, ci parla del suo desiderio di tornare a casa, da suo marito e dai suoi figli. Sogna un barlume di vita normale. Ma come aiutarla a realizzare il suo sogno in queste condizioni? Occorrerebbero ausili, cambiamenti strutturali, assistenza. Sono passati sette mesi, i riflettori sulla vicenda sono spenti, eppure le ferite sono ancora tutte aperte. Che potremmo mai fare noi per aiutarli a guarire?

Sant’Antonio degli srilankesi

Nel nostro viaggio ci sono anche sorprese. Di martedì andiamo in visita alla chiesa di Sant’Antonio, dove sono morte cinquantacinque persone. Si trova in una zona centrale, davanti al grande porto di Colombo, il più importante dell’isola. Della devozione degli srilankesi per sant’Antonio avevo tanto sentito parlare, ma quello che sto per vedere supera ogni mia aspettativa. Il pulmino che ci scorta al santuario fatica a farsi strada tra la folla che si assiepa davanti all’ingresso. C’è un posto di blocco con un metaldetector. Passato il controllo, ci addentriamo nel santuario. La prima cosa che noto è che ci sono decine di luoghi in cui si scorge una piccola o grande statua, un altare o uno spazio deputato a un rito particolare. Sembra che ogni fedele abbia il suo luogo preferito. Ci sono anche buddisti, induisti e musulmani, ognuno con il suo modo di pregare.

Anche a noi consegnano lunghi ceri bianchi e ci invitano a piantarli dentro una vasca con acqua. Neville ci affida al rettore del santuario, che ci conduce nel luogo in cui è scoppiata la bomba. Ci facciamo largo a fatica tra la folla della chiesa, un edificio a più navate, il cui corpo centrale è sorretto da una serie di colonne. Il rettore ci spiega che quel 21 aprile, il bilancio delle vittime poteva essere ben peggiore, visto l’afflusso di fedeli all’interno del santuario. «L’attentatore – continua – è stato compresso dalla folla tra le colonne dell’ingresso laterale, un particolare che non aveva considerato. Così, quando si è fatto esplodere, le colonne hanno protetto la maggior parte dei fedeli, nonostante la potenza micidiale dell’ordigno che portava nello zainetto». Mi fermo per una preghiera al memoriale che ricorda le vittime. Lascio un fiore.

Poco dopo, incontro alcuni dei sopravvissuti, riuniti in una stanzetta. C’è chi mi mostra una gamba amputata, chi mi indica i segni delle bruciature. Un bambino di 8 anni si alza la maglietta: una ferita profonda gli solca la pancia. Mi raccontano la loro vita, le loro speranze, la loro devozione a sant’Antonio. Hanno molta fiducia che la comunità cristiana darà loro una nuova opportunità. Alla fine della Messa presieduta dal cardinale, la gente ci avvicina per ricevere una benedizione. S’inginocchiano, le mani giunte, il capo chino, attendono il segno di croce sulla fronte e se ne vanno appagati e fiduciosi.

La richiesta d’aiuto

Finalmente riesco a parlare con il cardinale Ranjith. Mi spiega che la profonda spiritualità del suo popolo è stata forgiata dal buddismo, religione principale nel Paese (70 per cento), una spiritualità in cui ha attecchito il cristianesimo, grazie anche all’operato di Joseh Vaz, presbitero indiano, missionario a Ceylon (l’attuale Sri Lanka) tra la fine del 1600 e gli inizi del 1700. Un uomo carismatico, proclamato santo da papa Francesco nel 2015.

Mi rendo conto che, nonostante i cristiani siano una minoranza (7,4 per cento), il cardinale è una presenza forte sulla scena sociale e politica del Paese. Un’autorevolezza che gli viene dal rispetto per la tradizione locale, dal Vangelo vissuto in prima persona, dal grande impegno a favore dei poveri, che si traduce a volte in aspre prese di posizione nei confronti dei potenti. Un uomo difficile da inquadrare negli standard della cultura occidentale, ma che qui è un punto di riferimento per i poveri di qualsiasi religione. Un ago della bilancia in una situazione sociale potenzialmente esplosiva, percorsa da conflitti sottotraccia ma sempre pronti a emergere. Quelle bombe nelle chiese sono l’ultima terribile prova di forza. Sulla pelle dei poveri. Sulla sua pelle.

Gli chiedo come possiamo fare la nostra parte. Da quando sono avvenuti gli attentati, il cardinale Ranjith ha deciso di prendere la comunità in braccio. Di curarla con tanti piccoli gesti di aiuto e di conforto. Ci chiede di sostenere alcune aree, finanziando la costruzione di casette, la mensa per i poveri adiacente al santuario di Sant’Antonio, alcune protesi e, soprattutto, la scolarizzazione degli orfani e dei figli delle famiglie più povere. Si tratta di aggiungere tessere a un puzzle di solidarietà già in corso, di aiutare a ricostruire vite pezzo dopo pezzo.

E così, idealmente m’immagino quel sant’Antonio esploso nell’attentato rimesso insieme dalla solidarietà vostra, nostra e di molti altri; sogno quella Pasqua riportata al suo significato originale. La vita alla fine vincerà sulla morte. La pace, sulla guerra. Un miracolo di sant’Antonio che cammina con le nostre gambe.

A cura di Giulia Cananzi.

Se vuoi sostenere il progetto collegati con Carità di sant’Antonio.

Qui il reportage fotografico completo del progetto 13 giugno in Sri Lanka. Foto di fra Fabio Scarsato.

Data di aggiornamento: 10 Giugno 2020
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