Bambini in vendita
Il video è sconvolgente: una cinquantina di neonati, nelle loro culle trasparenti, sono ammassati nella hall di un albergo ucraino, trasformata in nursery dalle agenzie che si occupano di fare da tramite tra gli aspiranti genitori e le madri che affittano l’utero. È stato fatto girare per fare pressione sull’opinione pubblica, per ottenere il permesso di espatrio per i genitori committenti – in questo caso italiani – affinché possano ritirare i bambini che hanno comprato.
Lo so, è brutto dire comprato, tutti sanno che i neonati non sono in vendita. Però, in questo caso, è proprio così: esistono ormai da anni agenzie multinazionali che permettono di comprare un bambino in varie parti del mondo, ovviamente lucrando sul prezzo, perché forniscono assistenza legale – a favore dei committenti – e sanitaria sulle donne gravide. In questo modo i committenti e le madri non vengono mai in contatto, l’agenzia si occupa di tutto, anche di garantire che non si rafforzi il legame tra la madre e il neonato, che in genere non si vedono neppure.
Per questo i bambini abbandonati nella hall dell’albergo non sono assistiti dalle donne che li hanno partoriti, cioè dalle loro mamme, ma da altre donne che li nutrono con latte artificiale. Il filmato mette a nudo spietatamente la crudeltà di questo commercio, in cui conta solo la consegna di un prodotto sano a chi paga, mentre la salute psichica e affettiva dei bambini passa in seconda linea: il dolore traumatico della separazione tra mamme e neonati non conta. Quello che conta è che il desiderio di chi paga sia esaudito.
A proposito del destino di questi bambini, non si sa che cosa sperare, forse che le madri che li hanno partoriti siano aiutate a tenerli e ad allevarli, in modo che questo fallimento della programmazione delle agenzie diventi un monito per il futuro. Una delle cose più importanti che ci ha insegnato la pandemia di coronavirus, infatti, è proprio che un evento naturale improvviso può farci perdere tutto, può strapparci dalle nostre certezze. Non siamo i padroni del mondo, non possiamo ottenere tutto ciò che desideriamo.
Se la procreazione diventa un affare economico – come nel caso dell’utero in affitto – il denaro prende il sopravvento su tutto, in particolare sul destino dei nuovi nati, trattati come prodotti in vendita. Allontanato forzatamente dalla madre, il neonato è un essere spaventosamente indifeso e in pericolo, basta poco – come oggi la chiusura delle frontiere – per ridurlo a un prodotto scaduto, senza mercato e quindi a un’eccedenza inutile e imbarazzante.
Un romanzo uscito da poco, Fabbrica, scritto da Joanne Ramos, una scrittrice filippina che conosce bene il mercato degli uteri, fa capire con chiarezza come, in un mondo governato dalla sola legge del denaro, il feto/neonato completamente solo, privo di quelle difese che gli garantiscono i legami familiari all’interno dei quali di solito nasce – e soprattutto senza la madre – sia veramente in pericolo, ridotto allo status di prodotto di consumo.
E, al pari dei neonati, subiscono una riduzione a merce anche le donne che li devono partorire, che hanno scelto questa opportunità per miseria e devono accettare controlli umilianti, regole vessatorie e menzogne che le dovrebbero allontanare dalla comprensione della squallida realtà che stanno vivendo.
Lo scoppio della pandemia ha fornito una prova allarmante di come questo mercato sia pericoloso, in particolare per i piccoli, di come non esistano garanzie di successo quando si vuole programmare la vita in funzione del guadagno, dimenticando che si stanno manipolando i più importanti e preziosi legami umani. Speriamo che ne sapremo trarre le conclusioni più giuste e che si ponga fine al turpe commercio degli uteri.
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