Ben venga lo «jus scholae»
Mi racconta Carmen, quindicenne di origine ecuadoregna nata in Italia, ma senza cittadinanza: «Ho sempre paura che un insegnante o una compagna mi dicano: “Ma che ne sai tu che non sei neanche italiana?”. È capitato solo una volta, ma resta questa paura che a volte mi fa sentire fuori posto e non mi lascia tranquilla». I bambini e le bambine che nascono in Italia non possono e non devono sentirsi stranieri e ospiti. Fanno parte della nostra storia e a loro spettano tutti i diritti e i doveri per vivere bene nella realtà nazionale. Si è fortunatamente riaperto il dibattito sul superamento di una legge che consente la cittadinanza solo sulla base del sangue senza considerare la possibilità dello jus soli o dello jus scholae. L’idea della cittadinanza come diritto genetico appare oggi anacronistica. Come se, in un mondo sempre più mescolato, la purezza delle origini potesse diventare un criterio burocratico di selezione. Tanti Stati hanno colto la necessità di superare questa impostazione e di garantire che nuove forze vitali possano rinnovare l’appartenenza alla comunità.
Lo jus soli, ossia chi nasce in Italia è cittadino italiano, è una buona idea, probabilmente poco praticabile, dato il basso consenso politico. Ottimo che sia la scuola il codice generativo della cittadinanza. Non solo. Ritengo che siano proprio i cicli iniziali della frequenza scolastica quelli più interessanti. In particolar modo la scuola dell’infanzia che raggiunge i bambini e le bambine dai 3 ai 6 anni, periodo in cui si crea il cosiddetto «attaccamento sociale», ossia le regole a cui bisogna adeguarsi per stare assieme agli altri nel rispetto reciproco. A questa età si impara a litigare superando la frustrazione del proprio egocentrismo e cominciando a riconoscere la presenza altrui. In queste poche parole si trova il nucleo stesso dell’essere cittadini: rispetto me stesso rispettando gli altri e assumendo i miei diritti e i miei doveri in una logica di reciprocità e condivisione. Molti bambini stranieri, anche per motivi economici, non frequentano le scuole dell’infanzia. Una grave mancanza per loro e per tutta la società. Occorre intervenire, come già altri Paesi in Europa, mettendo l’obbligo di frequenza scolastica a partire dai 3 anni per creare da subito quegli automatismi sociali che consentono, in età adulta, di saper vivere assieme e stare con gli altri.
Trovo davvero assurdo che bambini e bambine che sono nati in Italia, che frequentano le scuole e che parlano benissimo la nostra lingua, debbano aspettare fino a 18 anni per poi sperare, ribadisco sperare, di avere finalmente la cittadinanza. La comunità nasce nella scuola. Il luogo giusto dove costruire la piena cittadinanza ed evitare di alimentare vissuti di estraneità, impotenza e rancore. Il mondo cambia e le leggi devono riuscire a governarlo.
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