Calcio e cultura che uniscono
La domenica, a Buenos Aires, i tifosi del Napoli Club si ritrovano al Sullivan’s, un pub irlandese nel quartiere di Palermo. Non c’è da stupirsi per questi accostamenti, in una città che ha costruito la sua identità sull’immigrazione: italiani e spagnoli, e poi ucraini, baschi, armeni, siriani, coreani e molti altri. Creato nel 2013 come «unico gruppo ufficiale del Napoli in Argentina», così si legge sul profilo Instagram, il club nasce da un’esigenza precisa: il fondatore Andrea Camera, giovane imprenditore italiano di origini partenopee, voleva vedere in compagnia le partite della sua squadra. Un rito che si ripete domenica dopo domenica, e al quale partecipano italiani residenti, viaggiatori occasionali, italo-argentini accomunati da una passione: il Napoli e, fino a quando ha giocato, Diego Armando Maradona. «Cerchiamo di mantenere un ambiente dove tutti si sentano a loro agio» dice Mario De Angelis, presenza fissa ai raduni del Sullivan’s. «L’obiettivo è fare il tifo e divertirci».
A unire i membri del club è il calcio e tutto ciò che ruota intorno a questo mondo. Per esempio, collaborano con Argentinos Juniors, la prima squadra di Maradona, per iniziative benefiche o per mantenere pulito il giardino della sua casa d’infanzia a Villa Fiorito, nella provincia di Buenos Aires. «Il Napoli Club è un esempio di come è cambiato l’associazionismo italiano», spiega María Soledad Balsas, sociologa e studiosa dei fenomeni migratori. «Le vecchie associazioni mutualistiche continuano a esistere, ma sono state affiancate da nuove forme di aggregazione. Informali, liquide e dinamiche».
Negli ultimi decenni la comunità italiana, pur numerosa, si è ridotta, passando da oltre 448 mila persone nel 1980 a circa 145.500 nel 2010. «Un fenomeno di questi ultimi anni sono i ricongiungimenti familiari al contrario», osserva Balsas. Italiani che in Argentina si sono creati una famiglia e una carriera, che ora fanno trasferire dall’Italia i genitori anziani per potersi occupare di loro senza tornare in Italia. «La nuova migrazione è meno nostalgica, più integrata nel tessuto locale, anche perché non è stata forzata dalla fame o da una guerra». A parlare è Elisabetta Riva, direttrice artistica del Teatro Coliseo a Buenos Aires, e coordinatrice di Seratana, rete di circa 200 donne tra i 25 e i 55 anni, nata poco più di 10 anni fa da un gruppo di «pioniere» che ogni tanto si trovavano per una serata tra amiche. La ragione del nome? Tano o tana (da napoletano) era il soprannome che si dava, a inizio ‘900, a qualsiasi immigrato dall’Italia. Ora il gruppo funziona online, come mailing list utile per condividere offerte di lavoro, case in affitto, medici, idraulici, negozi in cui procurarsi prodotti tipici italiani.
«La nostra forza è la Rete», aggiunge Elisabetta. «Seratana non ha una sede, uno statuto, un organo direttivo». Unico requisito per iscriversi alla mailing list è essere nate in Italia. Di solito si entra perché presentate da un’amica, ma alcune ragazze prendono contatto di propria iniziativa. «Non abbiamo bisogno di una sede fisica», precisa Elisabetta. «Le amicizie tra noi si creano, quando si creano, in modo trasversale, e l’identità nazionale è solo uno dei fattori che ci uniscono. Direi che ci aggreghiamo liberamente per affinità elettive». Capita di scoprire una passione in comune, il tango per esempio, o il teatro, e allora può nascere l’idea di organizzare uscite, ma niente di istituzionalizzato. Non è attorno al gruppo, insomma, che ruota il tempo libero delle tanas, molte delle quali residenti di lungo periodo, con una famiglia in Argentina e una vita professionale molto intensa che non avrebbe spazio per un lavoro associativo.
Il ricambio generazionale
Che ne è dei modelli di aggregazione tradizionali? Sopravvivono le associazioni mutualistiche di inizio Novecento, spesso nate su base regionale (calabresi, friulani, toscani, sardi, romagnoli...), per permettere alle persone arrivate dalla stessa zona d’Italia di incontrarsi con compaesani e non perdere il contatto con le proprie origini. Oggi accolgono discendenti di seconda e terza generazione, ma non attirano i nuovi arrivati. Mariel Pitton Straface appartiene alla terza generazione di una famiglia di origine calabrese. Coordina il gruppo giovani dell’Asociación Calabresa, Mutual y Cultural, fondata nel 1927 dall’unione di tre entità pre-esistenti per assistere gli immigrati, per esempio concedendo microcrediti per scongiurare il ricorso a usurai. Oggi l’associazione organizza corsi di italiano, pranzi sociali, viaggi in Calabria alla scoperta delle proprie radici, ma anche corsi di altre lingue, yoga, teatro. «Il punto critico è il ricambio generazionale», lamenta Mariel. «Ci siamo resi conto che l’associazione stava rapidamente invecchiando e volevamo invertire la tendenza».
Nel 2015 Mariel, laureata in Danza all’Universidad Nacional de las Artes, realizza il progetto a cui pensava da tempo: creare un corpo di ballo giovanile, specializzato in danze popolari calabresi, al quale, nel 2018, si è aggiunto un gruppo di bambini. «La nostra quarta generazione» commenta con un sorriso. Mariel evoca il forte legame con la nonna calabrese, oggi 92enne, arrivata a Buenos Aires quando ne aveva 16, che da sempre ha raccontato alla nipote «della sua vita là». Così confessa la sua doppia appartenenza culturale: «In Argentina mi sento italiana, in Calabria mi sento argentina. Ma una cosa non sopporto: chi prende la cittadinanza con il solo obiettivo di ottenere un passaporto europeo, senza nessun interesse per la lingua e la cultura».
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