11 Dicembre 2020

Come lupi tra i lupi

Vivono nella povertà e nella violenza, abitano in condomini fatiscenti impregnati di rabbia e omertà. Sono gli abitanti della banlieue francese descritta da Ladj Ly nel film «I Miserabili - Les Misérables» (Francia 2019).
Come lupi tra i lupi

Se vuoi la pace, lavora per la giustizia. Non bastano i retorici appelli a una convivenza tranquilla, rispettosa, ben educata. Nelle banlieue francesi, nelle periferie delle metropoli europee, nelle favelas e baraccopoli dove si ammassano le vite di un sottoproletariato indigente, disagiato, sfruttato e affamato, viene usurato il valore della libertà democratica.

Incensare la parità dei diritti e doveri giuridici suona come un insulto e una provocazione per chi non riesce a sperimentare forme quotidiane di giustizia in termini di alimentazione, educazione, tutela della salute, intimità familiare e forme abitative. L’indigenza è tale che, per sopravvivere, ci si organizza come lupi tra i lupi per gestire un’inevitabile violenza.

Sorgono così corporazioni e potentati più o meno legali, più o meno mafiosi, che alimentano il business clandestino (droga, alcol, prostituzione, scambio di favori). Gli enormi, anonimi condomini del film I miserabili sono gli alveari fatiscenti e traboccanti di un rancore diffuso, di un’omertà spudorata, di un esplosivo potenziale di rivolta, che contagiano purtroppo sia le forze dell’ordine sia quelle nuove generazioni che frequentano la scuola, ma devono sottostare alle angherie dei ras di quartiere (i «sindaci»).

Come cuccioli di leone (il giovane Issa ne ruba uno dal selvaggio circo gitano, per una bravata), i ragazzi francesi di colore, scossi da disperazione e odio, aprono le fauci e ruggiscono una rabbia antica, a costo della loro incolumità. È l’urlo di un giudizio finale, dove una bottiglia molotov può precipitare all’inferno buoni e cattivi, vittime e carnefici.Lo spettatore deve immaginare il finale: tutto è possibile, il gesto feroce e il ripensamento, l’espiazione o la tregua.

Esplicita fonte d’ispirazione è il romanzo I miserabili (1862), ambientato negli stessi luoghi di Montfermeil, a est di Parigi: un popolo buono ma miserabile subisce perenni soprusi per reati irrisori, qualunque sia il regime politico. Una frase di Vi­ctor Hugo è citata espressamente nella pellicola: «Non esistono erbe cattive o cattivi uomini, ma solo cattivi coltivatori».

Contesto malato

Il ritmo del film è serrato e inquietante, la scenografia e le immagini sono crude ed essenziali: una denuncia neorealistica si intreccia al genere thriller, sequenze di forsennato inseguimento sboccano in ambientazioni poliziesche e notturne. Il montaggio è ipnotico. La luce solare sotto cui giocano spensieratamente i ragazzi viene perforata dal neon rosso di night malfamati e dal cupo cinismo di guardiani e «papponi» rionali.

L’etica del «buon poliziotto» è messa a dura prova dal contesto malato: perché non vendicarsi di un gendarme sadico e razzista, se si hanno le prove che è colluso con gli stessi delinquenti? La giustizia è lontana, l’istituzione statale evapora. I miti dello spettacolo (calcio o cinema) tradiscono le attese giovanili.

Qualcuno vorrebbe sistemare i conti con accordi sottobanco tra adulti, perché la verità non può, non deve emergere. Contro questo interdetto, bande di minorenni incappucciati nelle felpe scure, stanchi di subire e disillusi del futuro, innescano una nemesi sanguinosa nei confronti dei potenti che fingono di non vedere. 

Eloquente la metafora del drone, poco più di un giocattolo – simbolo dell’arte cinematografica – con cui un curioso, innocente scolaro vede e registra ogni evento. È l’occhio di un falco, lo sguardo di Dio. La chiavetta di memoria contenente la scena del crimine (una sorta di pellicola clandestina) è consegnata dal regista adolescente al barbuto imam locale, unico interlocutore apparentemente credibile, capace di sfidare negli occhi i boss avidi che vorrebbero corromperlo.

 

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Data di aggiornamento: 11 Dicembre 2020
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