Diario dal terremoto - 4. Alberta
Guardate questa foto. È stata scattata davanti a una trattoria amata dalla gente delle campagne di Amatrice. Sta sulle sponde del lago Scandarello. Lei è Alberta, il cagnetto che le sta attorno è arrivato con il terremoto. Non fatevi ingannare: l’edificio sembra aver resistito alle scosse, ma non è così, andrà demolito. Le mura portanti non hanno retto al terremoto infinito degli Appennini dell’Italia centrale. Le case di queste montagne, spesso, sono implose: da fuori appaiono intatte, dentro hanno crepe mortali.
Da novembre, Alberta, cuoca e proprietaria della trattoria, vive in un container (in realtà uno stretto bungalow che ha comprato, con soldi suoi, in un campeggio, giù al mare) messo su, a Santa Giusta, paese di Amatrice, distante quasi quattro chilometri da Scandarello. Alberta ha 72 anni. C’è una foto, 1915, che ritrae sua nonna mentre cucina per gli operai che stavano costruendo la diga che avrebbe formato il lago. La trattoria ha oltre cento anni di storia.
Da mesi ogni mattina, Alberta si incammina. Scende fino a Scandarello. Ci sono due cagnette da accudire. Sono rimaste lì, non potevano stare al container di Santa Giusta. È arrivato anche il cane della foto, rimasto solo dopo il terremoto. Gli animali fanno festa quando vedono Alberta avvicinarsi. Lei non ha il coraggio di entrare nella casa. Lo fa solo assieme a qualcuno, come se si potesse difendersi meglio in due da una scossa improvvisa. Non sale più al secondo piano. C’è ancora la legna lasciata nella stufa. «Senti l’odore della polvere?». Guardo la grande sala: «Ero conosciuta per le zucchine fritte, per la coratella, per la pasta alla gricia». Questa estate non ci saranno i tavoli all’aperto: «Lì mettevo qui, ai lati della strada – dice Alberta –. Vorrei così tanto cucinare. Facevamo anche le feste da ballo, a Capodanno, per Sant’Antonio, mangiavamo e ballavamo». Mi mostra la cucina di casa sua: «Ho lavorato tutta la vita per averla così grande, per poter avere amici a tavola». Adesso si muove, come in un incastro, in una cucina di cinque metri quadrati.
Alle due del pomeriggio passa un bus-navetta. Alberta risale al container. Ha trascorso la mattina in un luogo deserto. Ha cercato di sistemare i suoi abiti, gli oggetti della casa. Ha guardato i nanetti caduti del suo giardino. Non li ha rialzati. Ha passato il tempo. Ha la sensazione di essersi data da fare.
Alberta ha chiesto un’autorizzazione a riprendere il suo lavoro in un container. Ancora nessuna risposta. Ad Amatrice nessuno ha riaperto, nessun container-trattoria, si aspetta la costruzione di un’area-food destinata a ospitare otto ristoranti (ma non Alberta: lei, come pochi altri, era rimasta aperta dopo il 24 di agosto, dopo la prima scossa, e quindi non aveva fatto domanda e dopo non c’era più posto). Ci sono tre mense ad Amatrice, vi lavorano cuochi della Protezione Civile, della Federcuochi. Penso (e so che è impossibile, grovigli di burocrazie) che in queste montagne sanno cucinare: non avremmo potuto far lavorare i cuochi di queste terre?
Alberta era abituata a lavorare quindici ore al giorno. La trattoria è la sua vita. Sorride e piange mentre ne parla. Dalla fine di ottobre (è stata la scossa del 30 di ottobre a condannare la trattoria) Alberta non fa niente. Aspetta. Apre la porta del suo container: offre caffè, un crodino. A volte, sì, una cena da sfollati con i vicini di accampamento, con i frati del convento di plastica.
«Se a Capodanno sono aperta da qualche parte e faccio il ballo, ci vieni?».