Disoccupazione digitale
Ricordate l’espressione «divario digitale»? Ci rammenta che le tecnologie possono includere ma anche escludere. Contano le risorse economiche, l’età, l’istruzione, la qualità delle infrastrutture disponibili. L’innovazione non è mai neutra, pone un enorme problema di sostenibilità sociale perché incontra il concreto della vita delle persone con effetti che possono produrre pure forme inedite di emarginazione. Negli scorsi anni l’attenzione era rivolta soprattutto alla equa diffusione della banda larga e al tema della «alfabetizzazione informatica». Problematiche tuttora irrisolte che incontrano però ora un’altra gigantesca questione: quella dell’impatto che le intelligenze artificiali possono avere sul lavoro. Alcune stime dicono che in Italia più di 8 milioni di occupati, oltre un terzo del totale, saranno chiamati ad affrontare la «sfida dell’automazione». La IA cambia le carte in tavola per impiegati, professionisti, operatori sanitari, insegnanti, giornalisti, per tutte quelle «attività qualificate» dove i software di ultima generazione possono rimpiazzare gli umani.
Sull’argomento può illuminarci una vertenza sindacale del 2023. È quella che ha visto impegnati sceneggiatori e attori americani contro le case cinematografiche di Hollywood. Aveva al centro il tema dei limiti da porre all’uso delle tecnologie IA. Dopo cinque mesi di lotte questi «lavoratori dell’intrattenimento» hanno ottenuto le garanzia volute: non saranno rimpiazzati nella stesura delle trame dei film o nella ripresa delle scene. Gli attori dovranno essere pagati se i loro «sosia digitali» appariranno sullo schermo. Che cosa ci insegna questa storia? Che questo è un «terreno» dove conterà moltissimo la forza contrattuale dei lavoratori, perché i conflitti non mancheranno.
Sono allora interessanti i risultati di una indagine condotta negli Stati Uniti dalla Società Americana di Psicologia. Risulta che il 38% dei cittadini pensa che le IA possano rendere obsoleto in tutto o in parte il loro lavoro. Tra gli «allarmati» uno su due è preoccupato addirittura per la propria salute mentale. Tutto avviene troppo velocemente, non si capisce cosa faranno i datori di lavoro e nemmeno quali saranno le competenze richieste in futuro. Lo stress per un lavoratore è fortissimo, ci si sente più deboli e inadeguati. Una sensazione che riguarda in particolare i dipendenti più anziani, anche se le ristrutturazioni colpiscono indiscriminatamente; vedi i recenti licenziamenti di «giovani» ingegneri a Google.
Siamo insomma in una fase di transizione. Chi la governerà? Come si prenderanno le decisioni? Il Fondo Monetario dice che il 60% del mondo del lavoro nelle nazioni più avanzate può finire coinvolto e invita i governi a introdurre «misure di protezione sociale». Il premio Nobel Joseph Stiglitz fa proposte concrete: ha recentemente osservato che la sostituzione del personale potrebbe essere contenuta con una riduzione dell’orario di lavoro. Ma questa non è una decisione che prenderà da solo il mercato. C’è poi un ultimo punto da considerare: di certo corrono meno rischi i lavoratori più creativi che svolgono funzioni che non possono essere rimpiazzate dalle macchine. Ma chi sta programmando una crescita della «creatività» del lavoro dipendente? Governare la transizione si può ma per farlo ci vuole una seria capacità progettuale che al momento non si vede.
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