Ritorno alle classi differenziali?
Mi scrive la signora Marella, madre di tre figli, uno con certificazione neuropsichiatrica 104: «Sono preoccupata. Su un quotidiano importante ho letto l’articolo di un noto giornalista che sostiene la necessità di mettere gli alunni con disabilità, o particolarmente problematici come mio figlio, tutti assieme per consentire agli altri di avere una scuola “normale” e a loro di essere seguiti in maniera più adeguata e specifica da professionisti superpreparati. Ho studiato un po’ di pedagogia e subito mi sono balzate alla mente le classi differenziali di cui mi parlava mia madre con ricordi non proprio simpatici. Dottore, ma davvero qualcuno vuole tornare così indietro, isolando ed escludendo i bambini con difficoltà dalla vita degli altri? Non si era cambiato indirizzo?».
La riflessione di Marella è corretta. Se davvero si dovesse prendere questa strada, con un colpo di spugna verrebbe cancellato quell’atto di civiltà straordinario compiuto nel 1977 quando l’Italia, primo Paese al mondo, attraverso la Legge 517, e grazie a un movimento pedagogico fortissimo, aveva abolito le classi differenziali. La legge prevede l’inserimento nelle classi «normali» di alunni con disabilità di vario tipo (motoria, intellettiva o, tanto più oggi, psicoemotiva), partendo dal presupposto che la compresenza e l’attività comune con i compagni ne favorisca la crescita, l’apprendimento e lo sviluppo, mentre isolarli in un ambiente formato solo da figure con patologie e disabilità più o meno analoghe peggiora le loro sorti.
Riconosco che questa legge così importante è stata ampiamente svilita e applicata male. Qual è quindi la soluzione? Tornare al punto di partenza rimettendo gli studenti con disabilità in un contesto esclusivamente per loro e quindi di profonda discriminazione rispetto ai loro coetanei? Va ricordato che la legge in questione riguarda l’integrazione, non semplicemente la «gestione» dei più fragili. Parte dalla formazione pedagogica dell’insegnante, dalla sua capacità di lavorare con alunni con livelli diversificati, evitando di rifarsi al programma da seguire «costi quel che costi» e puntando sull’apprendimento degli studenti, sui loro progressi più che sui loro errori. Presuppone, quindi, un’idea di scuola benevola verso le inevitabili differenze dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze.
La normativa, pertanto, viene di fatto disattesa per un deficit di metodo pedagogico. Perché è più comodo e facile «usare» l’insegnante di sostegno per un’assistenza scolastica esclusiva e riservata al disabile, portandolo fuori dal gruppo, piuttosto che sviluppare una classe che sappia lavorare assieme e condividere i compiti di crescita. Ma pensare che una legge gestita male sia sbagliata e ipotizzare il ritorno a uno stato precedente è come chiedere il ripristino della pena di morte solo perché ci sono troppi delinquenti in giro.
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