E se Einstein fosse nato donna?
Le pari opportunità di carriera, il divario di genere, la discriminazione salariale e la fatica di rimanere nel mercato del lavoro rappresentano ancora oggi un problema scottante per le donne. Ed è soprattutto in campo scientifico a essere troppo ampia la discrepanza tra il grande spazio riservato ai maschi e lo stretto angolino offerto alle femmine. Ad affrontare l’argomento è stata di recente Amit, una Ong spagnola che riunisce ricercatrici ed esperte di tecnologia e che ha promosso la campagna di sensibilizzazione #NomoreMatildas: tre favole – scritte da Ángeles Caso e Carme Chaparro e illustrate da Rodrigo García Llorca – e un video che si può vedere sul sito ufficiale dell’associazione (www.nomorematildas.com). Il progetto (creato da GettingBetter e prodotto da Kamestudio), che ha ricevuto l’appoggio del Parlamento europeo, prende spunto dalla vicenda dell’attivista americana Matilda Joslyn Gage, la suffragetta ottocentesca che per prima denunciò la situazione delle lavoratrici totalmente sotto-rappresentate negli ambienti scientifici: un’invisibilità che ancora grava sul possibile futuro nel mondo professionale scientifico.
L’Amit ha così pensato di stimolare l’interesse delle adolescenti, incoraggiandole a colmare lo Stem gap (vale a dire il divario tra femmine e maschi nel campo delle materie scientifiche, letteralmente Science, Technology, Engineering e Mathematics), un divario dettato da pregiudizi difficili da combattere, che vorrebbero ancora oggi le donne poco inclini a studi e professioni negli ambiti matematici e tecnico-scientifici. Le tre favole illustrate prendono le mosse da una domanda provocatoria: che cosa sarebbe successo se Albert Einstein, Alexander Fleming ed Erwin Schrödinger fossero nati donna? La risposta non è poi così difficile: con molta probabilità, infatti, in un’epoca in cui imperava il maschilismo di Stato, tre scienziate così intraprendenti sarebbero state «cristallizzate», trasformate cioè in passive collaboratrici di gruppi capitanati da soli uomini e relegate quindi in una posizione periferica, poiché non assimilabili alla «normalità» di genere. Una sistematica esclusione con un finale sicuramente a effetto: l’attribuzione delle loro scoperte a qualche cervello maschile.
Donne ai margini
«È il 1952 quando, a Londra, Rosalind Franklin perfezionò un microscopio e con esso vide una “doppia catena”. La sua scoperta, però, non solo non venne pubblicata ufficialmente – sottolinea Marta Maria Casetti, ricercatrice presso la London School of Economics and Political Science –, ma, anzi, il Premio Nobel per la scoperta della struttura del Dna venne attribuito agli scienziati James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins, i quali avevano basato la propria ricerca sui lavori della Franklin che non venne però mai citata». La stessa Casetti rappresenta un valido esempio di come una donna incontri anche oggi troppe difficoltà a vedersi riconosciuta in questo ambiente: «Ho conseguito un master in matematica – racconta infatti la ricercatrice –, ma sono riuscita a realizzare i miei sogni da scienziata con non pochi sacrifici. Il “soffitto di cristallo”, infatti, non è stato ancora abbattuto: una donna può sì guardare in alto, ma non può oltrepassare quel limite per fare carriera». Il divario tra maschi e femmine nel campo delle materie Stem comincia sin dalle aule universitarie. Oggi, infatti, soltanto tre ragazze su dieci si sentono incoraggiate a intraprendere studi scientifici all’università (i dati Unesco parlano di un 28% di presenza femminile nelle facoltà scientifiche) sapendo di andare incontro a vincoli di natura discriminatoria.
E così, benché l’interesse femminile per le materie tecnico-scientifiche si manifesti intorno agli 11 anni, già verso i 16 è in calo, vale a dire nel momento in cui si accende la fiammella degli obiettivi che ci si pone per il futuro. «Le adolescenti percepiscono presto che la scienza è “cosa da uomini” e, strada facendo, cambiano idea sul loro percorso di studi, pur se interessate alla materia – spiega la presidente di Amit, Carmen Fenoll, docente di Fisiologia vegetale presso l’Università di Castilla-La Mancha, a Toledo –. Inoltre, società, famiglia e scuola non le aiutano di certo, visto che per prime dubitano fortemente dell’idoneità delle ragazze a perseguire un cammino di studi Stem. E chi, nonostante tutto, riesce a superare questi ostacoli, si ritrova poi inevitabilmente in ambienti accademici ostili, afflitti da stereotipi inconsci». È comprensibile, quindi, che molte ragazze preferiscano non sparire in una nuvola di invisibilità dalla quale è molto difficile emergere, e optare per altri percorsi scolastici e professionali, a meno che non trovino, cammin facendo, dei validi alleati.
Illuminante in tal senso la vicenda dell’ecologa Amy Austin, prima donna a ricevere il premio Unesco for Women in Science, che ha scelto di vivere e lavorare in Patagonia. «Un giorno la maestra, mentre mi assegnava l’ennesimo voto positivo in un compito di matematica, mi disse: “Sei una bambina, non dovresti essere così brava in questa materia”. Raccontai l’episodio a mio padre, ingegnere aeronautico, che le fece una bella scenata. Fu così che poi, andando avanti con gli studi, mi lasciai catturare dall’ecologia, visto il mio interesse per approfondire la questione dell’equilibrio della natura», racconta. Ma, paradossalmente, ancora oggi, quando Austin cerca di spiegare quale attività svolga in una terra incontaminata come la Patagonia, molti la scambiano per un’attivista di Greenpeace, non riuscendo a immaginarla una scienziata: «Le donne nel nostro ambiente sono una minoranza – sottolinea –. Perché il problema è oggi il medesimo di sempre: un pregiudizio, lo stesso che aveva la mia maestra quando disse che non dovevo essere brava in matematica, perché non ero un maschio».
Dai banchi di scuola
Ma com’è possibile colmare il divario di genere nelle materie Stem? Serve un impegno costante, a partire dai primi anni di scolarizzazione, che miri ad abbattere i muri delle differenze: «Bisogna aiutare le ragazze a trovare il proprio ruolo anche nella scienza. Nella storia compaiono pochi nomi di scienziate, nonostante siano state artefici di scoperte chiave – prosegue Carmen Fenoll –. Occorre sostenere l’interesse delle bambine, garantendo un pari accesso a percorsi formativi in questo settore». A conferma di come le donne siano state lasciate ai margini del campo scientifico, basta sfogliare i libri di testo: sono davvero pochi i riferimenti femminili, appena un centesimo nei libri delle scuole primarie e poco più nei lavori accademici.
Sono stati così dimenticati alcuni nomi, come quello della biochimica ceca Gerty Cori, premio Nobel per la medicina nel 1947, riconoscimento che dovette obbligatoriamente dividere con il marito e un terzo scienziato. E così pure poco si sa sul talento di Irène Joliot-Curie, figlia della già famosa Maria, che nel 1935 fu costretta a dividere il Premio Nobel per la chimica con il marito. «Le istituzioni devono assicurare il totale abbattimento delle discriminazioni. È per questo motivo che la nostra campagna è rivolta a tutti gli studenti e le studentesse della quinta elementare, il momento in cui si iniziano a studiare i personaggi della storia», conclude la presidente di Amit, Carmen Fenoll. E mentre le favole delle «tre Matilde» si stanno pian piano diffondendo nelle scuole, studenti e studentesse si domandano sempre più spesso il perché di tutto questo, cercando di confrontarsi liberamente sulle proprie aspirazioni future, speriamo senza più condizionamenti.
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