Fragile bellezza
Ero a Khartoum, sulle rive del Nilo, nel novembre di un anno fa. Scattavo raffiche di fotografie a questa capitale in grande crescita, dove le mezzelune dei minareti luccicavano insieme alle vetrate dei grattacieli. Poche settimane fa uno di quei grattacieli, quello della Greater Nile Petroleum Operating Company, simbolo della città con la sua forma a vela, è andato in fiamme dopo essere stato bombardato. A Khartoum oggi risuonano le raffiche dei kalashnikov e dei mortai. Succede dal 15 aprile scorso, quando il Paese è piombato in una guerra intestina di cui nessuno, dopo i primi giorni, sembra voler parlare. Non è una guerra civile: la popolazione non combatte, muore.
A sparare sono due eserciti, quello regolare al comando di Abdel Fattah al-Burhan e le Rapid support forces (Rsf) del generale Mohamed Hamdan Dagalo. Dopo la rivoluzione (questa sì a partecipazione popolare) che nel 2019 ha posto fine al regime ultraventennale del dittatore Omar al-Bashir, il Sudan è stato governato per due anni da un Consiglio di transizione, prima che questo venisse deposto da un colpo di Stato nell’ottobre 2021, che ha riportato il potere nelle mani dell’esercito e dei gruppi paramilitari a supporto (tra cui le Rsf, già attive per conto del governo sudanese durante la cruenta guerra in Darfur). Le loro successive promesse di riconsegnare il Paese a un governo civile si sono rivelate parole al vento.
Quando, a inizio 2023, Fattah al-Burhan ha chiesto un pieno reintegro delle Rsf nelle Forze Armate Sudanesi, ecco l’escalation e la lotta per il potere con Dagalo. Ci sono naturalmente di mezzo altri interessi e ragioni più profonde, compresi intrighi geopolitici che coinvolgono persino la Russia (il Cremlino, interessato alle risorse del Paese, avrebbe gettato nei combattimenti il famigerato gruppo Wagner). Sono invece certi i numeri: oltre 4 mila civili uccisi dall’inizio del conflitto (secondo le Nazioni Unite), 4 milioni di sfollati interni (fonte IOM) e oltre 1 milione e 130 mila profughi scappati nei Paesi confinanti che, secondo l’Unhcr/Acnur, a fine 2023 rischiano di diventare quasi 1,8 milioni.
Nel novembre di un anno fa, a pochi mesi da questo inferno, ho visto passeggiare lungo le rive del Nilo viaggiatori da tutto il mondo, attratti da un Paese che prometteva bellezza e restituiva fascino e splendore. In primis quello della sua gente, mite e ospitale, plasmata dal vento del Sahara e dalle acque del fiume sacro che ha permesso la vita dove altrimenti sarebbe stato impossibile. Lungo le sue sponde si concentrano i tesori artistici e archeologici di quella che un tempo era la Nubia, terra ricca e leggendaria, conquistata dai faraoni del vicino Egitto.
Nel corso dei secoli l’influenza di questa regione crebbe a tal punto che un’intera dinastia di faraoni, la venticinquesima, era composta da sovrani neri provenienti da Kush (l’antico nome del Sudan). La loro prima capitale fu Napata, sulla grande ansa del Nilo, ai piedi del Jebel Barkal, un’imponente montagna piatta che sporge dal deserto facendosi notare a chilometri di distanza. Gli antichi la ritenevano sacra al dio Amon: a lui è intitolato il grande tempio che sorge alle sue pendici, con i resti di un viale fiancheggiato da sculture di arieti. Guardando in basso sul lato ovest, invece, si vedono spuntare i profili appuntiti delle piramidi. «È una delle tante necropoli della zona» spiega l’archeologa Francesca Iannarilli, membro del team italiano di Ca’ Foscari, che per anni ha lavorato in questa zona. «Le piramidi nubiane si differenziano da quelle egizie per il profilo più spiovente e per il fatto che non presentano la camera mortuaria al loro interno ma separata e scavata sotto la superficie».
In altri siti la commistione di religioni e storia si fa più marcata: a Naga, per esempio, proprio davanti al grande tempio intitolato al dio leone Apedemak ne sorge un altro in cui ai cobra egizi si uniscono capitelli corinzi e finestre ad arco tipicamente romane. Segno che l’influsso mediterraneo arrivò certamente fino a qui. Ma nel mezzo del deserto sorgono anche rovine di monasteri cristiani, come quello di Ghazali, o di intere città come l’antica Dongola, capitale di uno dei regni cristiani che si formarono nel VI secolo d.C. dopo la fitta evangelizzazione di alcuni monaci siriani. Sembra che la città, al suo apice, contasse decine di cattedrali e basiliche le cui colonne, ora, giacciono abbandonate tra le sabbie.
C’è però un luogo che nessun viaggiatore può perdersi in Sudan: è la Necropoli reale di Meroe, dove i sovrani di Kush spostarono la loro capitale intorno al III secolo a.C. Dichiarato patrimonio mondiale dell’umanità nel 2011, è il più grande agglomerato di piramidi al mondo (oltre 40), la maggior parte delle quali ancora in perfetto stato di conservazione. Fino a qualche mese fa il Sudan sperava di costruirsi un futuro a partire proprio dal sempre maggiore interesse turistico che stava destando nei viaggiatori europei, americani e asiatici. Ora tutti questi tesori rischiano di essere vittime collaterali della guerra: a minacciarli non c’è solo l’incuria in cui inevitabilmente cadranno, ma anche la brutalità delle stesse parti in conflitto, com’è accaduto lo scorso giugno quando guerriglieri della Rsf hanno fatto irruzione nel Museo Archeologico di Khartoum danneggiandolo.
Tuttavia la preoccupazione più grande è senza dubbio per i sudanesi: aumentano le notizie di crimini di guerra soprattutto in Darfur, dove le violenze hanno assunto una matrice etnica tale da risvegliare i fantasmi del passato genocidio contro la popolazione non-araba, iniziato nel 2003. La fragile bellezza che ho potuto sfiorare in Sudan non merita l’oblio: parlarne è il primo modo per tenerla in vita.
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