Fuga dalla conversazione
Qualche giorno fa abbiamo pranzato al fast food. A un tavolo accanto, quattro ragazzi aspettavano che fossero pronti i loro hamburger e intanto – tutti quanti – tenevano la testa china sui loro smartphone: uno di loro rideva per un post su Facebook, un altro era incantato da un video su TikTok, e ogni tanto si sentiva il segnale di un messaggio Whatsapp. Quei quattro giovani erano tutti insieme, tutti in gruppo, attorno a uno stesso tavolo, eppure sembravano come separati e addirittura isolati: ognuno di loro stava collegandosi con qualcun altro che stava fuori, all’esterno, nella grande Rete o chissà dove, ma nessuno rivolgeva la parola all’amico che gli sedeva proprio a fianco. Un’immagine quasi surreale. E questo non capita soltanto tra i giovanissimi. Avete mai provato a osservare i passeggeri di un treno? Spesso, anche se sono parte di una stessa comitiva o di una famiglia, trascorrono gran parte del viaggio a «dialogare» solo con il loro tablet o lo schermo del computer.
Comunicare invece che parlare
Nei nostri anni, via via, è andata scomparendo la conversazione. Lo aveva già «profetizzato» il grande sociologo Zygmunt Bauman, proprio in un’intervista al «Messaggero di sant’Antonio» nel 2015: «Siamo tutti solitari interconnessi – aveva spiegato –. La seduzione tecnologica della Rete sembra promettere a tutti i benefici della comunità, senza caricarci degli oneri. Ma alla fine, in realtà, ci lascia solo il prezzo dell’isolamento». Ce lo ha ribadito al Festival Filosofia di Modena il professor David Le Breton, già docente di sociologia e antropologia all’Università di Strasburgo, autore di saggi tradotti in dodici lingue: «Oggi, grazie alle tecnologie, la comunicazione ha preso il sopravvento e ha come “colonizzato” la parola. Si comunica in modo efficace e con precisione ma paradossalmente in tutto questo sembra quasi secondaria la presenza dell’altro. E un mondo dove non c’è l’altro e dove si smarrisce la reciprocità finisce per perdere anche l’etica». Insomma, oggi che le distanze si sono accorciate e in una frazione di secondo possiamo spedire un messaggio da un continente all’altro, non sappiamo più entrare in contatto con chi è nella nostra prossimità, con chi abbiamo davanti agli occhi. «Comunicazione e conversazione sembrano sinonimi, ma non lo sono – prosegue il professor Le Breton –. Nella conversazione è fondamentale il rapporto faccia a faccia, visage à visage, perché la nostra parola e il nostro messaggio “passano” anche attraverso le espressioni e la capacità dell’ascolto. La conversazione è fisicità, corporeità e vita». E mentre la comunicazione è diretta e arriva presto all’obiettivo, la conversazione può concedersi anche la libertà di divagare, di navigare nell’incertezza.
Parlarsi a distanza
E pensare che, se guardiamo ai secoli trascorsi, la conversazione era considerata un’attività nobile e desiderabile, una maniera per approcciarsi agli altri, rompere il ghiaccio e costruire amicizie. «Talvolta si è sostenuto che l’arte del conversare sia un’invenzione francese, come l’amore o l’haute cuisine – ha scritto lo storico britannico Peter Burke nel suo saggio L’arte della conversazione (Il Mulino) –. Importanti mutamenti nello stile e nei modi della conversazione si sono verificati invece nell’Italia del Rinascimento e nella Gran Bretagna del Settecento, tanto quanto nella Francia del “Grande Secolo”. E al conversare sono stati dedicati numerosi manuali comparsi tra il Seicento e l’Ottocento in Inghilterra, Francia e altrove». Burke ricorda che erano stati perfino fissati alcuni capisaldi della buona conversazione: per esempio, il «principio di cooperazione», l’uguale distribuzione dei «diritti del parlante», ovvero la capacità di parlare a turno per un reciproco scambio di idee, la spontaneità e l’informalità dello scambio di opinioni, e il tono non affaristico, ovvero la capacità di «parlare al di là delle effettive finalità della questione».
Già attorno al 1640, lo scrittore François de La Mothe Le Vayer osservò che «come nel gioco della palla è inutile colpire forte la palla se non viene respinta, la conversazione non è piacevole se manca una risposta valida». In sostanza, la conversazione implica prima di tutto la capacità di mettersi in ascolto dell’altro, di dialogare, di confrontarsi e di riconoscere – pur nelle differenze – le ragioni di chi ci sta di fronte. Purtroppo, come vediamo nella comunicazione impersonale e soprattutto nella (finta) comunità dei social, le buone intenzioni svaniscono facilmente: agli haters e ai leoni da tastiera – i solitari interconnessi di cui ci parlava Bauman – non interessa minimamente mettersi in relazione, e da loro arrivano soltanto giudizi taglienti e talora offensivi. Proprio di recente se ne è occupato anche «The Economist»: «In un mondo in cui è ormai normale il lavoro a distanza e la tecnologia ci incoraggia a cercare rifugio nei nostri schermi, non è insolito che persone che si ritengono socialmente sicure abbiano difficoltà nei contesti sociali della vita reale.
Come ogni abilità, l’arte della conversazione è qualcosa che può essere affinata attraverso l’esperienza. Se non la usi, la perdi», ha fatto notare il digital editor Adam Roberts. «Dopo che si sono trascorse ore intere in un mondo simulato, può risultare difficile tenere testa alle persone reali, il cui comportamento umano è per natura imprevedibile», è la riflessione di Sherry Turkle, sociologa della scienza e della tecnologia al Mit di Boston, autrice de La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale (Einaudi). «Purtroppo la pandemia, costringendoci alle riunioni da remoto o alle videochiamate, ha accelerato il processo, come una frattura antropologica – ci ha detto ancora il professor Le Breton –. Anche ora che siamo tornati in presenza e ci possiamo incontrare e guardare negli occhi, continuiamo a parlare a distanza». La professoressa Turkle analizza ulteriormente questo fenomeno che definisce una vera e propria «fuga dalla conversazione». Ovvero, anche quando si potrebbe interloquire dal vivo, con la voce e il linguaggio del corpo, c’è chi preferisce la connessione online, come per sentirsi più sicuro. «Siamo a un bivio – avverte –. Tantissime persone ripetono di non avere tempo per parlare sul serio, ma in compenso hanno tutto il tempo, giorno e notte, per connettersi in Rete».
Alcune ricerche svolte negli Stati Uniti rilevano che negli ultimi anni tra gli studenti universitari l’empatia è diminuita del 40%: come commenta la professoressa Turkle, «se vogliamo vivere la nostra vita tenendoci a distanza, c’è un prezzo da pagare». E questo solleva anche un tema ancora più delicato, quello dell’educazione alla conversazione. «Ormai diverse generazioni di bambini sono cresciute nell’attesa che genitori e pedagoghi garantissero loro anche solo metà della loro presenza – ha scritto la sociologa –. Molti genitori mandano messaggi a colazione e a cena, e vi sono padri, madri e baby-sitter che ignorano i bambini che hanno portato a giocare al parco». Gli adulti, dunque, «non plasmano più nei bambini la capacità di relazionarsi con gli altri, che è poi la stessa capacità di sostenere una conversazione».
Accanto alle parole, va ricordata anche l’importanza del silenzio che non rappresenta il nulla o il vuoto, anzi spesso contiene significati altrettanto profondi: «La comunicazione ha bandito il silenzio, lo considera un difetto o un errore, come quando un collegamento va a singhiozzo – rammenta David Le Breton che ha dedicato a questo argomento due saggi, Sovranità del silenzio (Mimesis) e Sul silenzio (Raffaello Cortina editore) –. In una conversazione è fondamentale anche tacere per mettersi in ascolto dell’altro, in un silenzio attivo».
Il silenzio «parla», come ha ribadito lo psichiatra Eugenio Borgna nel suo recentissimo saggio In ascolto del silenzio (Einaudi): esistono «stati d’animo che non di rado si nascondono nel silenzio e che si riconoscono solo se si è dotati di intuizione e di introspezione, di immedesimazione e di gentilezza, di apertura di cuore e di sensibilità». Invece, molto spesso si ha paura del silenzio, e certamente la tecnologia ha sottratto molti spazi a questa forma di dialogo delle emozioni: appena c’è un attimo di pausa, per esempio durante una cena o un incontro, molti corrono subito a cercare lo smartphone per consultare messaggi e notifiche. Gli esperti la chiamano Nomofobia, ovvero «No Mobile Phone Fobia», il timore di restare isolati, esclusi o di non apprendere in tempo reale qualche notizia imprescindibile.
Un sondaggio recente ha rivelato che ormai per il 40% degli italiani è un’abitudine consultare continuamente il telefono anche durante i pasti, e il 18.4% ammette che lo fa soprattutto quando c’è un momento di «stanca». Il 24% degli intervistati risponde di non farci neppure più caso, ma la grande maggioranza (il 70%) non approva questo comportamento. «Gli studi dimostrano che la semplice presenza di un telefono sul tavolo (anche un telefono spento) muta qualitativamente l’argomento di cui le persone stanno parlando», ha annotato la professoressa Turkle. Già nel 2018 in Italia è stato lanciato lo «Sconnessi Day»: ogni anno, il 22 febbraio, si viene invitati a trascorrere un giorno intero senza internet per recuperare le relazioni personali, più immediate e di contiguità, e quindi anche una conversazione più serena e meno frammentata.
Ritrovare il proprio tempo
Allora, dobbiamo arrenderci? La scomparsa della conversazione è un processo inarrestabile e ineluttabile? «A mio parere, questa tirannia della comunicazione e della tecnologia non è destinata a sparire e dovremo sapervi convivere – risponde il professor Le Breton –. Tuttavia possiamo provare ad applicare delle forme di resistenza. Io mi sono dato delle regole: lo smartphone è uno strumento importante, ma cerco di non esserne schiavo, leggo i messaggi poche volte al giorno, non sono obbligato a rispondere immediatamente. E ho riscoperto anche la bellezza dei cammini e dell’andare a piedi: mentre cammino insieme ad altri, faccio conversazione, scambio idee, ci guardiamo negli occhi. Ritrovo il mio tempo e non quello imposto dalla tecnologia».
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