Vita da single
Un tavolino, una sedia, qualche piantina intorno qua e là, la cucina dietro una porta, un cuoco e un cameriere. Al ristorante Irma 1:1 di Copenhagen non serve altro per attirare l’attenzione dei clienti. Sì, perché il locale creato nel 2019 dall’omonima catena di supermercati danesi sfama una persona alla volta, in altre parole è a tutti gli effetti un ristorante per single. Nulla di strano, visto che già nel 2017 (dati Eurostat) in Danimarca il 44% delle famiglie era composto da persone singole. Allora in Italia la notizia di questo locale era passata un po’ sotto silenzio, forse etichettata come una stranezza nord-europea. Ma in pochi anni la prospettiva è mutata.
A intercettare i primi segnali di cambiamento nel nostro Paese è stato il Rapporto annuale Istat del 2022, secondo cui in Italia – sul totale delle famiglie – quelle formate da una sola persona sono passate dal 24% del 2000-2001 al 29,4% del 2010-’11, fino a raggiungere il 33,2% nel 2020-’21 (superando di fatto le coppie con figli che si attestano intorno al 31,2%). Stiamo parlando di quasi 8,5 milioni di famiglie, ovvero un terzo del totale. «Se all’inizio del nuovo millennio la famiglia nucleare formata da una coppia con figli era ancora la più frequente, seppure non più maggioritaria, ai giorni nostri è superata dalla famiglia unipersonale» riporta l’Istat. «Si assiste, in altri termini, a una polarizzazione, da un lato, verso le persone che, per motivi diversi, vivono da sole una fase della loro vita e, dall’altro, (verso) la famiglia nucleare classica della coppia con figli». E le previsioni per il futuro sembrano confermare il trend. Di questo passo, secondo l’Istat, nel 2040 quasi quattro famiglie su dieci saranno costituite da persone sole, soprattutto anziane.
Considerato anche il progressivo aumento dell’aspettativa di vita, a colpire non è tanto quel 62,9% di popolazione che – secondo il Rapporto Italia stilato da Eurispes nel 2023 – vive sola per fattori esterni (morte del coniuge, ma anche separazione o divorzio…), quanto quel 37,1% che lo ha scelto spontaneamente. Proprio quella fetta di popolazione – presumibilmente giovane, spinta da motivazioni personali o lavorative – va studiata nel dettaglio. Che si tratti di amanti della libertà o di pendolari che hanno trovato lavoro lontano dalla famiglia e, quindi, sono stati costretti a formarne una mono-persona, «queste realtà stanno cambiando la forma attuale dei legami – commenta Elisabetta Carrà, docente di Sociologia della famiglia e membro del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore –. Anzitutto serve capire se l’aumento delle persone che vivono sole rischia di portarci alla situazione della Svezia, che nel 2017 (dati Eurostat), col 51% di single, era il Paese europeo con più famiglie mono-persona. Penso al docufilm di Erik Gandini – dal titolo La teoria svedese dell’amore – che evidenzia come questa alta percentuale di persone, oltre a vivere sola, muoia anche sola e priva di legami. Domandiamoci, dunque, se chi vive solo è anche una persona isolata. Il collegamento non è affatto scontato, specie in un Paese come il nostro, dove la solidarietà tra generazioni risulta decisamente elevata rispetto ad altri luoghi. E dove sono in netta espansione le coppie LAT (Living Apart Together), che vivono separate, ma condividono momenti di vita a scelta».
Solo risolvendo questo quesito, secondo la docente, è possibile mettere a punto una strategia in grado di proteggere le famiglie single dai rischi legati all’isolamento. «Quanto più ampie sono le relazioni di una persona, tanto maggiore sarà il suo benessere – conclude Elisabetta Carrà –. Per questo, è fondamentale rafforzare il più possibile le reti sociali, incoraggiando forme di incontro e di auto-aiuto». Di questo avviso è anche Eric Klinenberg, autore di Going solo: the extraordinary rise and surprising appeal of living alone. Nel suo libro uscito nel 2012 il sociologo americano paragona l’aumento dei singleton (cioè le persone che vivono da sole) a una sorta di rivoluzione demografica in cui la solitudine – in quanto scelta e non subita – non comporta necessariamente una disgregazione dalla società. Al contrario, secondo il sociologo, i single sarebbero più bendisposti delle coppie sposate a socializzare. E, perché no, anche ad amare. «Ciò che è più vivo in noi è il desiderio di trovare amore, perché di amare e di essere amato ha sete il cuore di ogni uomo e donna e niente ci appaga come l’amore – scrive padre Oliviero Svanera in Si quaeris amare. Tredici meditazioni per single, coppie e cercatori d’amore –. È la mancanza d’amore, infatti, il vero vulnus dell’uomo moderno che, suo malgrado, mentre esalta la soggettività individuale in vista di una propria autorealizzazione, si consegna spesso alla solitudine affettiva ed esistenziale».
Ne sa qualcosa anche sant’Antonio: non a caso – nei Paesi di lingua spagnola – il Taumaturgo è soprannominato affettuosamente casamenteiro (colui che accasa), perché, secondo la tradizione, aiutò una giovane molto povera a sposarsi, procurandole dote e corredo. Proprio in ricordo di questo episodio, i frati della Basilica del Santo hanno attivato, nel 2017, il Progetto Sant’Antonio Casamenteiro, un percorso di incontro, formazione e preghiera per single tra i 35 e i 55 anni.
Al di là dell’accasarsi o meno, la scelta di mettersi in relazione con gli altri è il primo passo per raggiungere un sano rapporto con la propria solitudine. «Nella Bibbia si parla spesso della solitudine – scrive Anselm Grün in L’arte di stare soli (EMP) –. Nel racconto della creazione, Dio dichiara: “Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda” (Gen 2,18). Questa frase è stata spesso interpretata nel senso che l’uomo non può vivere senza una donna e viceversa. Ma il significato è diverso: “Non è bene che l’uomo sia un essere isolato in se stesso” (Uhsadel, Der einsame Mensch, 149). Infatti, nella Bibbia, in risposta a questa constatazione, Dio non crea per prima cosa subito la donna, ma prima “plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati” (Gen 2,19). L’uomo – continua il padre benedettino nel suo libro – ha bisogno di relazioni, a partire da quelle con gli animali, con i quali egli stabilisce un legame attraverso i nomi che assegna loro. Prima della creazione degli animali, Dio aveva posto l’uomo nel giardino “perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2,15). Ma il lavoro da solo non basta all’uomo. Per essere pienamente umano, ha bisogno di relazioni».
Una scelta di tendenza
Chiarito che solitudine e isolamento sono due condizioni ben diverse che non viaggiano necessariamente in coppia, resta da capire chi è oggi la persona single. Dimenticate l’immagine della zitella, spesso derisa ed esclusa dalla società in quanto «mancante» di un marito e, quindi, diversa dalla gran parte delle donne sposate. Per l’Enciclopedia Treccani single sono «uomo o donna non sposati, o che comunque vivono soli, senza un legame sentimentale, per lo più per libera scelta». Persone, dunque, indipendenti, che non subiscono il proprio destino, ma che in qualche modo se lo creano. Poco importa se le ultime indagini di Coldiretti hanno rilevato per i single un costo della vita in media più alto del 78% rispetto a quello pro capite di una famiglia tipo di tre persone. E, infatti, al supermercato le monoporzioni – sempre più diffuse – costano più dei pacchi formato famiglia e i richiestissimi monolocali nelle grandi città si vendono a prezzi vertiginosi.
«Single soon» cantava la pop star Selena Gomez la scorsa estate. Forse non sarà conveniente, ma essere single oggi è una scelta di tendenza. «In questo momento storico e socio-culturale, complice una società che veicola messaggi come “fare da soli è meglio” o “la persona al centro”, osserviamo una grossa fatica a portare avanti le relazioni – spiega Anna Bertoni, professore di Psicologia sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore –. Il rapporto con un’altra persona viene spesso visto come una minaccia, come qualcosa da cui è necessario difendersi, e non come una risorsa in cui sprigionare la nostra identità relazionale». Spesso la fatica in questione deriva dall’idea di un rapporto a due capace di portare solo benefici e gratificazioni. «In realtà – continua Bertoni, che fa parte del comitato scientifico del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia –, la relazione è un legame che va costruito nel tempo e richiede cura, dedizione, impegno». Nulla che non sia già insito nell’uomo. «La natura più profonda della persona è relazionale. Noi nasciamo da una relazione. La nostra qualità umana più specifica è la capacità di stare in relazione. Capiamo chi siamo e ci definiamo grazie alle relazioni che intrecciamo (il figlio rispetto ai genitori, la madre e il padre rispetto al figlio, l’amico rispetto all’amico…). Perciò è come se in questo momento vivessimo una sorta di analfabetismo relazionale».
Come si esce dunque dall’inghippo? Ironia della sorte, proprio la solitudine può aiutarci a recuperare un rapporto sano ed equilibrato con l’altro. Secondo il filosofo tedesco Odo Marquard: «Ciò che ci affligge, ci tormenta e ci tortura nei tempi moderni non è la solitudine, ma la perdita della capacità di stare da soli: l’infragilirsi della forza che deriva dalla solitudine, della capacità di sopportare l’isolamento, il declino dell’arte di vivere e di fare della solitudine un’esperienza positiva». In altre parole, imparare a stare bene con se stessi è il primo passo per stare bene con gli altri. «Stare in relazione – conclude Anna Bertoni – non significa essere dipendenti dall’altra persona, ma portare il proprio essere, la propria individualità con qualcun altro. Anche nel legame più stretto, il nostro essere, la nostra identità non scompaiono, ma si mettono in dialogo con qualcuno che è profondamente e irriducibilmente diverso da noi».
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