Il delitto Matteotti

Cento anni fa, il giovane segretario del Partito socialista unitario fu rapito e assassinato a Roma da un gruppo di sicari fascisti. Aveva denunciato a lungo i brogli elettorali e le violenze del regime di Mussolini.
10 Giugno 2024 | di

Era il pomeriggio del 10 giugno 1924. L’esponente socialista Giacomo Matteotti uscì dalla casa romana in cui viveva con la moglie Velia Titta e i loro tre bambini piccoli. Fece pochi passi sul Lungotevere Arnaldo da Brescia prima di essere assalito. Dopo una furiosa colluttazione fu caricato a bordo di una Lancia Kappa e «ucciso dalla cosiddetta Ceka, la “banda del Viminale”, un gruppo di arditi fascisti guidato da Amerigo Dumini – come ricordano Diego Crivellari e Francesco Jori nel loro saggio Giacomo Matteotti, figlio del Polesine. Un grande italiano del Novecento (Apogeo editore) –. Con Dumini, a bordo della Lancia scura a sei posti, c’erano Giuseppe Viola, Augusto Malacria, Amleto Poveromo e Albino Volpi: tutti tra i 30 e i 40 anni, tutti con precedenti penali, tutti ex combattenti e arditi della Grande guerra». Del commando faceva parte, come basista, l’austriaco Otto Thierschald. L’auto era stata noleggiata da Filippo Filippelli, direttore del quotidiano «Corriere Italiano». La Ceka era la polizia segreta alle dirette dipendenze di Mussolini, presidente del Consiglio e ministro degli Interni. Il corpo di Matteotti fu ritrovato solo il 16 agosto nella macchia della Quartarella, un bosco tra Riano, Castelnuovo di Porto e Sacrofano, a una ventina di chilometri da Roma. La sua tragica morte sollevò un’ondata di sdegno e di rabbia in tutta Italia.

Il delitto Matteotti ha rappresentato uno dei momenti più bui della storia del nostro Paese, in un mondo che scivolava inesorabilmente verso i totalitarismi: quello fascista e nazionalsocialista in Europa, lo stalinismo in Unione Sovietica, e l’autoritarismo nipponico in Estremo Oriente. E sappiamo quanti milioni di morti quella deriva produsse. Ma sarebbe demagogico attribuire le responsabilità politiche solo al quadro storico, economico e sociale che favorì l’ascesa dei totalitarismi, fondati sull’uso spregiudicato della violenza e della sopraffazione, spesso sostenuti e finanziati – almeno in Occidente – anche da un’insospettabile borghesia in funzione antisovietica e anticomunista. Le responsabilità storiche vanno ricercate anche nella non sempre limpida azione, ovvero nella spregiudicata inerzia, di taluni cosiddetti «corpi intermedi dello Stato» come organizzazioni, associazioni e sindacati. Se la pigrizia mentale, il cinismo, l’ipocrisia, il tornaconto personale e l’ignavia sono infatti tra le peggiori tare di ogni consesso democratico, non ne furono immuni nemmeno alcuni attori-chiave di quella monarchia costituzionale che precedette l’istituzione della repubblica.

Il titolo del romanzo d’esordio di un giovanissimo Alberto Moravia, Gli indifferenti (1929), sintetizza in modo plastico, e con sorprendente lucidità, il clima di quel periodo. L’Italia degli anni Venti del XX secolo era un Paese azzoppato dalla Prima guerra mondiale: l’aveva vinta a metà. Svaporato l’orgoglio patriottico e le parate militari, l’Italia si ritrovò sul precipizio del malgoverno e del malcontento popolare, segnata da insanabili lacerazioni sociali e dalla crisi economica causata dalle devastazioni belliche; con un sistema industriale arretrato, con un’economia prevalentemente rurale, dominata ancora dai grandi latifondisti, isterilita da un analfabetismo diffuso cui faceva da contraltare una formazione culturale ancora classista, e l’impossibilità, da parte di masse di operai, contadini e braccianti, di poter riscattare se stessi e le proprie famiglie da una condizione di atavica indigenza e di emarginazione sociale. Mentre la parabola liberale giolittiana esauriva la sua spinta propulsiva, i popolari di don Sturzo e i socialisti cercarono la quadra, con poca convinzione, per contrastare quei fermenti «rivoluzionari» che, con la promessa di «magnifiche sorti e progressive» per una «nuova Italia», mascheravano, in realtà, solo il consolidamento del potere delle vecchie caste, aristocratiche e borghesi, impaludate tra corruzione e nepotismo, eppure ancora abilissime a manovrare le teste calde e i galoppini superstiti della Grande guerra. 

In questo scenario che preannunciava l’ascesa del Ventennio fascista, si impose la figura di Giacomo Matteotti, giornalista ed esponente politico coltissimo e poliglotta di Fratta Polesine (Rovigo), ma di origine trentina e di estrazione alto-borghese, deputato e segretario del Partito socialista unitario, nato proprio grazie a Matteotti, a Filippo Turati, Claudio Treves e Giuseppe Emanuele Modigliani, in seguito alla scissione del Partito socialista italiano nel 1922. Quella di Matteotti fu la battaglia civile, a tratti solitaria e coraggiosa, di un uomo che credeva in un’Italia affrancata sì dalle potenze straniere, ma capace di coniugare l’economia di mercato con i diritti degli operai e dei contadini, radicata nell’istruzione e nell’emancipazione di tutti i cittadini (valori e principi fatti propri dalla nostra Costituzione repubblicana), e forgiata in quella libertà e autonomia di pensiero e d’azione che da sempre spaventano ogni elitario autoritarismo illiberale e antidemocratico. 

I libri di storia hanno spesso compresso il battagliero e meticoloso Matteotti nel ruolo riduttivo di una vittima illustre dello squadrismo fascista; a onor del vero l’unica, tra le molte vittime, che con le sue instancabili denunce contro le violenze e i soprusi delle camicie nere fece scricchiolare il regime di Mussolini – un altro giornalista fuoriuscito dal Partito socialista –, salvo poi costringerlo a giocare a carte scoperte. Di fatto, l’inizio conclamato della dittatura fascista fece seguito proprio al delitto Matteotti, mentre gli altri esponenti politici di minoranza si «ritirarono sull’Aventino», cioè si astennero dai lavori parlamentari illudendosi di esercitare, in questo modo, una sorta di moral suasion su Mussolini. Una pia illusione. Fino alla «beffa» del 9 novembre 1926, quando la Camera dei deputati li dichiarò tutti decaduti.

Il figlio del Polesine

Nel 1907 Giacomo Matteotti si laureò in giurisprudenza, a pieni voti e con lode, all’Università di Bologna. Parlava correntemente inglese, tedesco e francese. Così ebbe modo di viaggiare in Germania, Austria, Inghilterra, Francia, Olanda, Belgio, dedicandosi anche a un’intensa attività editoriale. Nel gennaio del 1908 diventò consigliere comunale a Fratta Polesine. Ma furono le elezioni politiche del novembre del 1919 a portarlo in Parlamento a Roma, dove non ci mise molto a farsi tanti nemici. Come scrivono ancora Diego Crivellari e Francesco Jori nel loro libro: «Il 12 marzo 1921 venne rapito a Castelguglielmo, un piccolo centro della campagna polesana, da un gruppo di fascisti, mentre stava andando a fare un comizio. Due giorni prima, il 10 marzo, era intervenuto alla Camera dei deputati per denunciare il dilagare della violenza antisocialista. Picchiato, minacciato, spinto a forza su un camion (...). Matteotti riapparirà dopo ore a Rovigo, raggiungendo dalla campagna, a piedi, per almeno una decina di chilometri fino al capoluogo, la sede di una nuova riunione che lo avrebbe visto impegnato per il rinnovo dei patti agrari. “Gli abiti un poco in disordine, ma sereno e tranquillo. Solo dopo che uscirono gli avversari, rimproverato dai suoi compagni per il ritardo – è Piero Gobetti che scrive (...), ugualmente destinato a essere vittima della violenza squadrista –, Matteotti si scusò sorridendo: I m’ha robà”. Scusate, mi hanno rubato (rapito, ndr), ma ora sono ancora tra voi».

A Roma il governo del giolittiano Luigi Facta dimostrava tutte le sue debolezze mentre «i fascisti procedevano all’occupazione delle città (...). Lo sciopero legalitario promosso dall’Alleanza del lavoro si tradusse in un ennesimo boomerang per le sinistre, e Mussolini poté accreditarsi come l’unico argine al caos temuto da ampi settori della borghesia e dei ceti medi». Matteotti si sacrificò, lavorò in modo indefesso, si espose più di tutti gli altri denunciando la deriva che stava travolgendo le istituzioni dell’Italia liberale, convinto che se i socialisti avessero abbandonato l’ideologia massimalista, avrebbero potuto lottare insieme alla borghesia per sostenere le istituzioni democratiche. Il culmine di questo dramma si consumò il 30 maggio 1924, in occasione del suo discorso alla Camera, quando ribadì le segnalazioni di irregolarità e di brogli. Quello rivolto all’emiciclo, resta il suo ultimo grido disperato: «Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente, rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della Nazione. Non continuate più oltre a tenere la Nazione divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo. (...) Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni». Dopo aver concluso la sua intemerata, Matteotti si sedette mormorando ai suoi colleghi: «Adesso preparate l’orazione funebre per me».

I luoghi e la memoria

La città di Rovigo ripercorre, attraverso immagini e documenti originali, la vita e l’impegno politico dello statista polesano, con la mostra «Giacomo Matteotti (1885-1924) – Storia di un uomo libero» curata dal professor Stefano Caretti, docente di Storia contemporanea all’Università di Siena, e allestita a Palazzo Roncale (palazzoroncale.com) fino al 7 luglio. Un’altra mostra dal titolo «Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della Democrazia» si può visitare fino al 16 giugno nella capitale, al Museo di Roma (museodiroma.it). Matteotti si distinse non solo come statista, ma anche come amministratore locale e formatore di una classe dirigente che, come egli stesso ribadiva, fin dal basso, dai territori, doveva essere preparata e competente. Nonostante gli impegni parlamentari a Roma, il figlio di Fratta rimase profondamente legato alla propria terra, ai suoi riti, alle sue tradizioni che costituivano l’identità del Polesine e i pilastri di quel riscatto sociale che doveva contribuire ad affrancare un popolo intero dalla miseria. Il senso della giustizia sociale che Matteotti perseguiva si era sviluppato durante i suoi studi di diritto e di economia. Egli aveva approfondito anche i temi dell’educazione scolastica e della didattica. Contrario alla partecipazione dell’Italia alla Prima guerra mondiale, europeista convinto, era «molto influente anche fuori dall’Italia, nei circoli dell’Internazionale socialista, dove sarà tra i primi a parlare di “Stati Uniti d’Europa”». Egli approfondì i temi della politica internazionale e si prodigò per organizzare le leghe contadine, per difendere i diritti degli operai e dei braccianti agricoli. 

L’eredità che Matteotti ha lasciato all’Italia è densa di valori etici e civili: quelli della giustizia e della solidarietà, dei diritti umani, della dignità del lavoro, del rispetto delle istituzioni democratiche. Il Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario della morte di Matteotti (celebrazionimatteottiane.com) ha preparato un ricco calendario di eventi e iniziative: incontri di carattere storico, convegni, attività di studi sulla sua figura e sul suo impegno politico, percorsi di educazione civica per le scuole superiori. A questo si aggiunge un fumetto sul giovane Matteotti in collaborazione con la Fondazione Kuliscioff, un board game realizzato dall’Archivio di Stato di Rovigo per i ragazzi della scuola primaria e secondaria di primo grado, e un ciclo di poesia e musica curato dall’Accademia dei Concordi con il Conservatorio «Francesco Venezze» di Rovigo. Un ulteriore importante tassello di questa commemorazione è la Casa-Museo di Matteotti a Fratta Polesine, attualmente sottoposta a un radicale intervento di restyling con un percorso destinato a esplorare la quotidianità familiare del parlamentare socialista, attraverso luoghi e oggetti di una memoria intima, schietta e autentica, che evoca i legami e gli interessi di una famiglia che seppe farsi testimone e interprete delle istanze della popolazione del Polesine e dell’Italia. Fino al sacrificio supremo del suo figlio più amato.

Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»! 

Data di aggiornamento: 10 Giugno 2024

Articoli Consigliati

Vita da single

07 Giugno 2024 | di

Sephora kids

06 Giugno 2024 | di
Lascia un commento che verrà pubblicato