Libertà della devozione
«In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito». Questa è una celebre frase dell’Introduzione di Fontamara di Ignazio Silone, uno dei romanzi più belli e importanti del Novecento italiano. «Cafone» è una parola che Silone usava in un significato diverso da quello comune. Era il nome dei contadini della piana del Fucino e, in generale, un nome con cui lo scrittore indicava gli oppressi e i dimenticati della terra. Una parola di dolore, certo, ma mai usata da Silone in senso dispregiativo, in modo da suscitare vergogna. E invece il dolore è ancora oggi causa di vergogna, soprattutto nei poveri. La mia famiglia ha conosciuto la povertà. L’hanno conosciuta i miei nonni, e la sua eco viva è giunta fino a me. Da questa eco nascono le mie parole sulla povertà, sull’economia, sulla teologia.
La teologia cattolica dei secoli passati (quella della Controriforma) non ha aiutato i poveri. Il Vangelo li ha aiutati, qualche volta anche la Chiesa. Ma chi davvero ha aiutato i poveri è stata la pietà popolare: quelle statue della Madonna e dei santi, che per i poveri, per le donne soprattutto, erano le uniche compagne di sventura (santi martiri, madonne addolorate …) alle quali potevano rivolgersi nella certezza di essere capiti veramente. Ma la teologia non li ha aiutati, ha solo reso la loro vita peggiore. L’idea non evangelica di un Dio che gradiva la sofferenza umana in vista del paradiso, di un Dio-Padre che aveva addirittura voluto la crocifissione del figlio per salvare noi (salvarci da cosa?). I poveri facevano invece di tutto per schiodare i loro figli dalle croci, e hanno così partorito nel loro cuore un altro Dio, quello della pietà. La pietà popolare è stata un immenso esercizio collettivo di sovversione, soprattutto di donne. Fu, a modo suo, un meraviglioso inno alla vita, la risposta popolare alle idee teologiche sbagliate. La pietà popolare – quella dei pellegrinaggi, delle processioni, delle preghiere latine reinventate… – fu la ControControriforma popolare; fu la risposta, rivoluzionaria e mite, delle donne alla religione dei teologi e del loro dio immaginato.
La povera gente i libri di preghiere non li sapeva leggere, né aveva i soldi per comprarli. E così, per uno scacco matto della Provvidenza, che sta sempre dalla parte dei poveri, la gente del popolo, le donne soprattutto, furono protette dal loro analfabetismo. La pietà popolare fu un grande luogo di libertà femminile, in un mondo che restava per loro un’esperienza di servitù. In Chiesa facevano finta di rispondere alle giaculatorie latine dei preti, ma dalla loro bocca uscivano, sussurrate, parole diverse. E, soprattutto, piangevano. Pregavano con le lacrime e con i baci e con le mani: preghiere mute meravigliose, mani nodose e consumate che però sapevano fare carezze stupende e baciare le statue dei santi, della Madonna, degli angeli e dei bambinelli. Carezze e baci che a casa quelle donne non ricevevano mai da nessuno, in chiesa li donavano all’infinito a Cristo e ai santi, e ci hanno salvati veramente. La fede cattolica è ancora viva, anche se molto malata, grazie a queste donne che l’hanno umanizzata con la loro pietà, che l’hanno salvata con la loro trasgressione: «Nella vita cristiana la pietà coincide non tanto con l’ascetica né con la mistica, neanche con la devozione o con le devozioni: coincide con la “Carità”, che è l’Archivio dell’amore di Dio» (don Giuseppe de Luca).
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