Giacomelli tra realismo e magia
Scanno (AQ), 19 ottobre 1957. All’uscita dalla messa, in piazza Sant’Antonio va in scena una strana «processione». Un bambino con le mani in tasca cammina assorto mentre quattro donne, infagottate nei loro cappotti, lo scortano inconsapevoli verso il punto di fuga della composizione. A giudicare dalle simmetrie, l’immagine sembra studiata a tavolino. Il suo autore, del resto, sapeva bene come partire dalla realtà per innalzare il particolare all’universale. Guarda caso fu uno dei fotografi più innovatori di tutto il Novecento.
Se la foto Scanno (1957-59) di Mario Giacomelli è ormai un’icona esposta persino al Moma di New York (nella mostra The photographer’s eye, 1964), non sono da meno gli altri settantanove scatti che si possono ammirare al Palazzo del Duca di Senigallia, nella mostra permanente «Il realismo magico di Mario Giacomelli. Fotografie dalla Civica Raccolta» a cura di Katiuscia Biondi.
Sono passati oltre vent’anni da quando il maestro marchigiano se ne andò, lasciando in eredità al Comune della sua città natale una selezione di opere realizzate in cinquant’anni di carriera. Dai paesaggi ai ritratti fino alle scene in ospizio, ogni scatto è il tassello di un’unica storia. La storia di un bambino rimasto orfano di padre a 9 anni. La storia di un garzone di tipografia. La storia di un autodidatta che seppe trasformare la passione per l’obiettivo in arte rivoluzionaria.
Terra e mare
Per quanto ci proviamo, non è mai facile liberarsi dei luoghi comuni. Chiesa-contemplazione. Vocazione-austerità. È proprio per sdoganare queste associazioni mentali che nel 1962 Mario Giacomelli chiede di trascorrere un anno nel seminario di Senigallia fianco a fianco con gli aspiranti sacerdoti. Vuole indagare le origini di una scelta tanto totalizzante, capire come la gioventù e il bisogno di libertà possano convivere con la sete di Dio. L’approccio immersivo con cui affronta questo «esperimento antropologico» non è una novità per il fotografo. Basti pensare a quando, trentenne, si era calato nei panni di – parole sue – «un vecchio tra i vecchi», dando vita di lì in avanti a diverse serie fotografiche realizzate in ospizio.
Dall’esperienza con i «pretini» uscirà invece una sola serie di quindici fotografie: Io non ho mani che mi accarezzino il volto (1961-63), titolo che ricalca l’omonima poesia di padre David Maria Turoldo. Inizialmente l’artista non è soddisfatto del proprio lavoro. Le stampe finiscono puntualmente nel cestino. Finché Giacomelli non coglie i seminaristi mentre giocano a palla sotto la neve. Ecco l’ispirazione che stava cercando. L’obiettivo spicca il volo tra le vesti talari. Immortala corse e sorrisi, girotondi e scherzi tra amici. Il sapiente uso del contrasto, i dettagli mossi, il bianco mangiato e il nero chiuso sembrano errori tecnici, ma sono tutti dettagli di uno stile nuovo in bilico tra realtà e magia.
«La fotografia di Mario Giacomelli è definibile “realismo magico” perché, pur partendo dalla realtà, egli non è mai approdato al reportage – precisa Katiuscia Biondi, direttrice dell’Archivio Giacomelli –. Inventando ex novo un proprio linguaggio, ha incentrato la sua ricerca sulla possibilità di trovare un intimo contatto con il mondo, dopo una presa di coscienza della propria interiorità e del proprio sguardo sulle cose. Il suo è un realismo fatto di vivide atmosfere e rimandi, in cui il presente diviene l’eco di qualcosa di antico ed eterno».
Per capire davvero l’arte di Mario Giacomelli non si può prescindere dal rapporto con la sua terra e con il mare. Senigallia, dove è nato il 1° agosto 1925 e da cui raramente si separerà. E l’Adriatico: è proprio al cospetto di quelle onde che nel 1953 vede la luce il primo capolavoro del maestro. Realizzata con una Bencini Comet S, L’approdo – la foto della scarpa trasportata sulla spiaggia dalle onde – farà il giro del mondo e dei concorsi fotoamatoriali.
Nonostante il successo, Giacomelli continua a lavorare nella sua «Tipografia marchigiana» di via Mastai 5. E nel frattempo immortala amici e parenti, campi e colline. Predilige il bianco e nero, poi dagli anni ’60 sperimenta la stampa a colori. È abitudinario. E non ama viaggiare. I suoi sconfinamenti si contano sulle dita di una mano: Scanno, Lourdes, Loreto, Puglia e Calabria. Ma questo non fa di lui un fotografo meno esperto.
«Se un sinonimo di fotografo è viaggiatore, allora Giacomelli è fotografo perché ha compiuto attraverso la fotografia il viaggio più impervio e lungo, quello interiore» continua Katiuscia Biondi. Non c’è da stupirsi dunque se nel 1955, vincitore al Concorso nazionale di Castelfranco Veneto (Tv), viene salutato da Paolo Monti, in giuria, come «l’uomo nuovo della fotografia». Che Giacomelli fosse un pioniere è sempre stato chiaro. Anche quando anticipa la Land Art americana degli anni ’60/70 documentando i segni dei trattori sulla terra, che lui stesso ha commissionato ai contadini.
La terra è una costante nella produzione del maestro. Come pure le sue trasformazioni. Basti vedere la serie La terra che muore (Storie di terra) in cui, riprendendo una casa colonica dalle colline marchigiane di Sant’Angelo, il fotografo racconta, stagione dopo stagione, il deterioramento del territorio preda delle coltivazioni intensive. «La natura è lo specchio entro cui io mi rifletto – dirà Giacomelli –, perché salvando questa terra dalla tristezza della devastazione, voglio in realtà salvare me stesso dalla tristezza che ho dentro».
Proprio questa profonda sensibilità è ciò che accomuna il fotografo ai grandi poeti e lo rende a sua volta «poeta dell’immagine». «La poesia per Giacomelli è tutto – spiega Katiuscia Biondi –. Ha sempre letto poesia e lì, immerso nelle parole dei poeti, sentiva amplificare i sentimenti che aveva dentro. Così nascevano da questo incontro le immagini interiori di tali sentimenti, che prendevano magicamente forma attraverso la fotografia».
Per quanto longevo, il sodalizio con la poesia emerge soprattutto negli anni ’80, quando Giacomelli trae ispirazione per le sue ormai consuete serie fotografiche dalle rime di Eugenio Montale (Felicità raggiunta si cammina), Giacomo Leopardi (A Silvia, L’infinito) e Cesare Pavese (Verrà la morte e avrà i tuoi occhi).
Proprio a quest’ultima poesia Giacomelli dedica la sessione fotografica nell’ospizio di Senigallia dal ’66 al ’68: «Ho provato più emozioni stando a contatto con questo ambiente che in tutte le altre ricerche messe insieme. […] Perché? Dopo avere lottato tutta la vita, perché la fine di una vita deve essere questa, perché deve finire in questi ambienti, in queste istituzioni sballate?».
In cerca di risposte, il maestro continuerà a lavorare fino alla fine dei suoi giorni (25 novembre 2000). La morte, che tanto aveva indagato, lo coglie dopo un anno di malattia. «Questa morte – per dirla “alla Pavese” – che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo».
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